In un Paese senza memoria passa tutto velocemente e spesso senza lasciare traccia. Lo scorso aprile la sentenza della Corte d’Appello di Palermo che ha condannato assieme mafiosi e uomini dello Stato, in un Paese normale avrebbe dovuto aprire dibattiti e approfondimenti sui media ed essere anche tema di dibattito politico ma tutto questo invece non c’è stato. Meglio non parlare di trame e misteri che hanno messo assieme uomini dello Stato e uomini contro lo Stato.
La notizia è ormai superata, scivolata via e soppiantata da cose ben più importanti come il gossip, il matrimonio dell’anno... meglio parlare di cose allegre e frivole, di sogni di ragazzi piuttosto che di fatti che potrebbero sconvolgere l’intera nazione.
Di questi fatti, documentati, alcuni conosciuti, altri meno, ne parla il magistrato Nino Di Matteo, il pm del processo sulla trattativa, oggi sostituto procuratore alla Direzione Nazionale Antimafia, che nel suo libro “Il patto sporco. Il processo Stato-mafia nel racconto di un suo protagonista” ricostruisce e analizza le motivazioni della sentenza di condanna rispondendo alle domande di Saverio Lodato, uno dei giornalisti italiani che meglio conoscono il fenomeno mafioso.
Il patto sporco è dunque un libro che parla di quanto accaduto in Italia agli inizi degli anni ’90, delle stragi di Capaci e via D’Amelio, quelle di Firenze, Roma, Milano, del ‘93; la bomba non esplosa nel gennaio 1994 allo stadio Olimpico di Roma che avrebbe dovuto uccidere centinaia di carabinieri. Parla delle fondamenta del processo sulla trattativa, di quella posta in gioco discussa alla pari tra uomini dello Stato e i poteri criminali di quello stesso Stato.
E’ anche un libro per certi versi autobiografico, lo è quando si ricorda che Totò Riina, intercettato nel 2013 nel carcere di Opera mentre all’ora d’aria parla con un mafioso pugliese, dice di Di Matteo: «Gli farei fare la fine del tonno. La stessa che ho fatto fare a Falcone».
E’ autobiografico quando si scrive dei 200 chili di tritolo comprati in Calabria per uccidere il pm. Oggi ci si chiede dove è andato a finire quel tritolo, chi ce l’ha e se nelle istituzioni o nei servizi c’è qualcuno che lo sappia.
Ne il “Patto Sporco” di Di Matteo e Lodato c’è un capitolo dedicato al capo dei capi Totò Riina e al suo figlioccio Matteo Messina Denaro, del quale si dice rammaricato per il suo comportamento. Intercettato nel carcere di Opera, mentre conversa con un altro mafioso, Riina disse:”L’ho cresciuto io, lui ha dimostrato di essere valido e capace, è figlio di suo padre che me lo aveva affidato personalmente. Ma ora è cambiato… e ha in testa soltanto gli interessi economici e il suo affare delle pale eoliche”. In un certo qual modo Riina lascia trasparire un auspicio, quello del ritorno del suo figliol prodigo.
E’ sull’invisibile boss latitante di Castelvetrano, Nino Di Matteo risponde alle domande di Saverio Lodato: “Chi è davvero Matteo Messina Denaro? E’ l’erede naturale di Riina?"
Di Matteo: “Per me sì. E lo dico sulla base di precisi dati di fatto. Troppo spesso negli ultimi anni ho sentito opinionisti e commentatori affermare che Matteo Messina Denaro ha abbandonato per sempre la linea dell’attacco frontale allo Stato che caratterizzò la stagione di Riina. Lo dico perché voglio restare ai fatti. Matteo Messina Denaro è il rampollo di una famiglia con quattro quarti di nobiltà mafiosa. E’ cresciuto in quella mafia trapanese che meglio di ogni altra ha saputo coltivare rapporti ad alto livello con altri poteri: economici, politici, massonici, e con settori deviati delle istituzioni. Anche quelle poliziesche e dei servizi segreti. Messina Denaro – continua Di Matteo – è nato in quel contesto. Ha saputo volare in alto, muoversi anche altrove, in Italia e all’estero, senza mai dimenticare che Trapani e la sua provincia costituiscono il bacino di elezione della sua forza e del consenso di cui ha sempre goduto anche fuori anche fuori dal contesto mafioso.
Lodato: “Ma perché Messina Denaro diventa potente e riverito più di tanti altri?
Di Matteo: “E’ stato indottrinato dal padre e da Riina. E non è cosa da poco. Dalla ortodossia mafiosa dei capi corleonesi ha preso tutto, ma non si è limitato a questo. Ha saputo adeguarsi ai tempi e li ha precorsi. Ha capito che Cosa Nostra doveva rinnovarsi, restando però sempre fedele a se stessa, per non scomparire.
Lodato: “Come è riuscito a salvare l’organizzazione da un possibile annientamento? Tutti erano convinti che si fosse alla vigilia del tramonto definitivo di Cosa Nostra.
Di Matteo: “Ha capito che gli affari economici dovevano essere diversificati e, anche territorialmente, dovevano svilupparsi lontano dalla Sicilia. Ha capito che per recuperare il consenso popolare, giunto ai minimi termini dopo le stragi del ‘92-’94, l’organizzazione doveva essere meno opprimente sul territorio. Doveva risparmiare, ove possibile, imprenditori e commercianti dalla vessazione del pizzo, magari convincendoli a mettere le loro attività a disposizione di Cosa Nostra con un contraccambio di denaro. Ha cambiato i sistemi di comunicazione fra gli uomini d’onore, affiancando ai tradizionali pizzini, l’utilizzo strumentale e sofisticato dei social network”.
Secondo Di Matteo, Matteo Messina Denaro è il mafioso per eccellenza del terzo millennio la cui forza principale consiste, però, ancora nel coinvolgimento pieno e nella conoscenza di misteri e ricatti che hanno accompagnato almeno l’ultimo tragico decennio del secolo scorso. “Quando parliamo di lui non possiamo dimenticare, ciò che è stato e ha vissuto in prima persona negli anni Novanta. Ha partecipato e organizzato in prima persona il tentato omicidio del funzionario di polizia Rino Germanà. Ha coordinato la fase esecutiva della strage di via dei Georgofili a Firenze e gli attentati, a Roma e Milano".
Ma Di Matteo, ad una domanda di Saverio Lodato che gli chiede se la forza di Messina Denaro sta in un micidiale mix tra passato e presente, risponde così: “Resto convinto che la più grande forza di Messina Denaro sia costituita dalle sue conoscenze. Dai pesanti segreti che coinvolgono alta mafia e pezzi dello Stato. Lui non può sapere, anche in virtù del suo atavico rapporto con Riina, perché è cambiato in corso d’opera il programma di uccidere Falcone a Roma. Non può sapere se Giuseppe Graviano, nel periodo delle stragi siciliane, aveva davvero rapporti con Berlusconi anche in funzione della successiva creazione del nuovo movimento politico, Forza Italia. Non può non sapere perché la strategia delle bombe venne esportata in continente con l’adozione di modalità terroristiche mai appartenute, in precedenza, a Cosa Nostra. Non può non sapere se, la scelta dei singoli obiettivi da colpire venne suggerita ai macellai di Cosa Nostra da uomini ed entità esterne di altri poteri. Infine, non può non sapere perché dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico l’intera strategia stragista venne improvvisamente interrotta".
Sono questi i segreti che detiene e sono la sua straordinaria arma di ricatto che spiega forse la sua interminabile latitanza che ha la copertura di ambienti deviati delle istituzioni che hanno ragione di temere, sapendo di quali terribili segreti è a conoscenza, che un giorno lui possa decidere di vuotare il sacco.