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26/12/2018 14:24:00

ll razzismo è diventato la normalità in Italia

Jorge Luis Borges coltivava rispetto e venerazione per la parte animale che risiedeva al fondo della sua natura. La tigre è un simbolo che ricorre spesso nella sua poesia: è la potenza naturale del corpo prima della civilizzazione. Ma Borges gli animali li preferiva in carne e ossa. In “L’altra tigre”, dice infatti che «persevera nel cercare […] quella che non è nei versi», perché «nel suo mondo non ci sono nomi né passato né futuro, solo un istante vero».

La società rimuove la nostra animalità per autofondarsi (come ci ha insegnato Foucault), ma gli scrittori non possono che farci continuamente i conti. È quello che fa Francesco Piccolo in “L’animale che mi porto dentro” (Einaudi, 2018), declinata nella pulsione sessuale come fondamento delle relazioni. Nietzsche la metteva così: «La scienza nell’ottica dell’arte, e l’arte nell’ottica della vita»: solo un ritorno all’animale dentro di noi ci innalza a superuomini, eliminando le false credenze. Il corpo è lì (e comanda, senza che lo sappiamo), la nostra natura animale è lì, ed è sempre pronta a venire fuori, non appena le maglie sociali della civilizzazione si allentano.

Questo può accadere per vari motivi. Uno dei più forti è il risentimento collettivo nei confronti del Leviatano, dello Stato stesso: una crisi economica in questo senso è un efficace detonatore. Insomma, la strada per tenere a bada la nostra animalità è faticosa: è il cammino della civiltà che, tra gli altri, ha raccontato Rousseau nel Contratto sociale.

In ogni caso, proprio su quella teoria nicciana il fascismo e il nazismo hanno poi fatto leva per giustificare filosoficamente la sopraffazione sul più debole, che poi condurrà alla “soluzione finale”. Negli anni Venti e Trenta, le “basi materiali” per una rivincita dell’animalità repressa c’erano tutte, come mostra Antonio Scurati in “M, il figlio del secolo” (Bompiani, 2018): una gravissima crisi economica mondiale; l’impoverimento improvviso della classe media; il “solleticamento” dello scontento da parte di abili convogliatori di rabbia e frustrazione animalesca per fini elettorali.

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La Storia trascorre, e si ripropone oggi in un “eterno ritorno”. L’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell’Osce, così come la commissione parlamentare “Jo Cox”, parlano di un aumento impressionante di reati di violenza a sfondo di odio razziale negli ultimi mesi, in Italia. Solo da giugno a ottobre sono una settantina (omicidi, accoltellamenti, sprangate, investimenti). A ben vedere, le basi materiali sono molto simili a quelle degli anni Venti. L’omicidio del nigeriano Emmanuel Chidi Namdi, a Fermo; il neonazista Luca Traini che leggeva il Mein Kampf che a Macerata spara trenta colpi contro sei stranieri; l’uccisione a Firenze del senegalese Idy Diane; quella del maliano Soumaila Sacko, in Calabria.

Ma cos’è il razzismo, sulla cui base animale e biologica si commettono questi crimini? Si può prendere per buona la definizione che ne dà lo storico Fredrickson in “Breve storia del razzismo” (Donzelli, 2002): «Quando differenze che potrebbero essere considerate etnoculturali vengono invece considerate innate, indelebili e immutabili». Una tara innata, animale, biologica.

«Andiamo a picchiare i neri», (Pomigliano). «’A negri qua non ce potete sta’, se non ve n’annate so’ affari vostra», (Tarquinia). «Non mi faccio visitare da un negro», (Cantù). «Gas per i negri», (Isola del Gran Sasso). «Non possiamo smettere finché voi negri siete qui», (Pavia). «Sporco negro, odio i negri», (Riccione). Sono tutte frasi pronunciate nel giro di un pugno di giorni dopo la famosa dichiarazione di Attilio Fontana, attuale Governatore della Lombardia: «Dobbiamo decidere se la nostra etnia, se la nostra razza bianca, se la nostra società deve continuare a esistere o se deve essere cancellata».

Come nel secolo scorso, quello che sta accadendo è un involgarimento del dibattito pubblico e uno scivolamento progressivo dalla banalizzazione alla normalizzazione, fino alla rivendicazione delle violenze razziste. Come scrive Michela Murgia in “Istruzioni per diventare fascisti” (Einaudi, 2018) , anche sul versante razziale è avvenuto «il passaggio da avversario a nemico. […] Occorre parlare del nemico in maniera deformata e de-umanizzata, per esempio identificandolo con animali». E questa è una tecnica che finché porterà voti verrà perseguita. Su questo punto riflette anche il libro di Luigi Manconi e Federica Resta “Non sono razzista, ma” (Feltrinelli, 2017).

Ma questo discorso pubblico inneggiante alla razza e all’odio, proprio come negli anni Trenta sta giustificando un comportamento violento privato, animale. Stanno tornando a circolare liberamente molte parole dell’ideologia razzista e deumanizzante che ha permesso il fascismo e il colonialismo, così come sembra riaffacciarsi una concezione della donna e della famiglia di stampo regressivo (per esempio, la mozione anti-aborto approvata a Verona, che fa tornare in mente le “culle vuote” del Ventennio). La dichiarazione del governo di differenziare gli orari di apertura degli esercizi commerciali “etnici” da quelli italiani. Il caso della mensa scolastica di Lecco, dove i bambini stranieri sono stati divisi dagli italiani. Il caso del comune milanese di Cinisello, dove la giunta ha chiesto il bollo della censura per ogni libro proposto nei progetti di lettura municipali.

Lo stesso Ius sanguinis, che àncora la cittadinanza al “sangue” e non al luogo di nascita. La demonizzazione dello straniero come portatore di malattie (ideologia alla base del sequestro della nave Aquarius, mutuata dalla campagna fascista per la conquista dell’Etiopia).

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Che cosa sta succedendo a noi italiani? Non eravamo mica “italiani brava gente”, come ha detto in un’intervista poi strumentalizzata l’attrice polacca Kasia Smutniak («il razzismo non è nel dna degli italiani»)? I numerosissimi episodi di violenza su stranieri però dicono il contrario.

Di sicuro ci sta accadendo di essere vittime di un rimosso collettivo. Era la mattina del 18 settembre del 1938 quando Benito Mussolini, annunciava le leggi razziali. Sotto, in «un solo palpito di attesa e di amore», 150 mila persone esultavano, affollando piazza dell’Unità di Trieste in camicia nera e fez. Mussolini disse che occorreva «una chiara, severa coscienza razziale che stabilisca non soltanto delle differenze, ma delle superiorità nettissime». Poi tuonò contro chi credesse che quella non era farina del sacco italiano che «coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito a imitazioni o peggio a suggestioni sono dei poveri deficienti». E a ragione, perché era stata proprio l’Italia a inventare l’apartheid tra “sudditi” e “cittadini” nelle sue colonie. Prima al mondo, come prima anche nel parlare di “razza” italiana (parola che serviva a Mussolini per costruire un nazionalismo tutto ancora da creare, che doveva passare dal sanare il razzismo tra il Nord e il Sud, tra “nordici” e “sudici”, come si usava dire, e veniva scritto offensivamente anche negli atti parlamentari).

Recentemente sono usciti due bei libri che si misurano con il mutamento antropologico in atto a causa dell’iperconnessione delle nostre vite. “The Game “(Einaudi, 2018) di Alessandro Baricco, che sulla scia del suo maestro Vattimo legge la questione filtrandola attraverso l’estetica della vita: tutto ciò che si può esporre verrà esposto al gioco della “macchina” estetica del gradimento, con relativa cessione alla “macchina”, da parte nostra e per contraccolpo, di ciò che di nostro credevamo proprio più “trasparente” e vero. Ed “Epocalisse” (Mimesis, 2018) di Marco Pacini, che riflette lucidamente più sulla perdita questa volta intellettiva e ragionativa che cediamo al Grande cervello comune, al grande server centrale.

In tutti e due i libri, consapevolmente, c’è un grande, enorme, presente-assente, il grande invitato irriducibile, che si dimena, oggi più che mai, e che non cessa il suo ruggire: è il corpo. La tigre di Borges che da dentro ci avvampa.

Giuseppe Catozzella, L'Espresso (qui il link originale)