Esiste un curioso articolo del nostro codice di procedura penale, che vieta ai testimoni di un processo di «deporre sulle voci correnti nel pubblico ed esprimere apprezzamenti personali, salvo che sia impossibile scinderli dalla deposizione sui fatti»; poco prima, la stessa norma proibisce al testimone di deporre genericamente «sulla moralità dell’imputato».
Ora, se è cosa buona e giusta che le sentenze dei tribunali umani non si fondino sulle impalpabili “voci correnti nel pubblico”, le stesse voci rappresentano invece un terreno di elezione del più profondo linguaggio poetico, come dimostra l’ultima raccolta di versi del poeta fiorentino-padovano Silvio Ramat. Un equivoco va, però, sin d’ora fugato: le “voci correnti” qui richiamate non sono certo quel cicaleccio inautentico e superficiale che si trascina stancamente di labbro in labbro, a mo’ di pettegolezzo (quell’“insulso” di cui si parla nella poesia Assensi, e che il sublime è deputato a scacciare);
le “voci correnti” sono, invece, quei nobili frammenti di realtà che mal sopportano i ragionamenti scientifici, puramente razionali e “calcolanti”, e che dunque richiedono, per essere raccolti, distillati e infine espressi, un linguaggio loro appropriato: la Poesia.
Lo scenario nel quale si distende il tardo stile di Ramat è quello già recentemente scolpito nella bella raccolta Fuori stagione (2018, Crocetti editore): un uomo che, dopo quasi sessant’anni di poiesis, ha ormai la sensazione di vivere un secolo che più non gli appartiene («Sempre più spesso mi càpita – in aule / dove pontifico, o sul treno in ore / che i ragazzi vi s’accalcano, o al banco / di un bar dopo il tramonto – di sentirmi / per età e per abito un fuori quota»: Il fuori quota).
Tale percezione d’essere quasi un “pesce fuor d’acqua” traspare persino nelle piccole cose allegoriche della quotidianità, come il fatto di non trovare più, negli scaffali dei negozi, gli indumenti della taglia giusta, indumenti che a questo punto risulteranno sempre o troppo larghi, o troppo stretti (Calzato e vestito. Autoritratto). Giunge, allora, l’anno nuovo, e il poeta non ama i rumorosi e vacui bagni di folla, ma predilige piuttosto un sobrio «banchetto / fra i datteri e le noci di Sorrento» (Natura morta con datteri e noci), in cui parlare con un fil di voce e a lume spento; ancora: egli non ama, in montagna, imbottigliarsi nei sentieri battuti dai più, ma rintraccia i viottoli senza impronte, salvo poi dover prendere atto che le orme altrui ci sono eccome, e dunque è meglio industriarsi ad «essere uno del coro» piuttosto che cedere alla hybris del “primo fra tutti” (Orme; vedi anche Scene da far vergogna).
Tale condizione, peraltro, oggetto di lucida e garbata consapevolezza, non rappresenta per l’Autore il pretesto per una fuga dalla realtà o, addirittura, per ingaggiare una battaglia contro il mondo, ma anzi viene da lui serenamente accettata come parte integrante dell’esistenza stessa («Così mi arrangio, patisco il difetto / o l’eccesso… Ma, stretto o largo, accetto»: Calzato e vestito. Autoritratto), poiché permane sempre la saggia convinzione che, finché dura il viaggio della vita, tutto ha pur sempre un senso e un valore, anche ciò che ci appare alieno o persino inutile (Finché dura il viaggio), e fors’anche un impertinente «inquilino di antiche stagioni» che viene a casa a farci visita (Il sole a fine maggio).
Nel cuore di Corre voce c’è la poesia che dà il titolo al nuovo libro: nei suoi undici endecasillabi, arricchiti da un ipermetro, l’Autore scolpisce in miniatura tre cose che corre voce accadano.
“Corre voce” sembra dirci che si tratta di fatti o circostanze che il poeta osserva non in quanto comprovati dalla scienza, dimostrati dalla logica o convalidati da un qualche protocollo, ma in quanto – più semplicemente – attestati da un’esperienza fugace, una rara intuizione, un improvviso baluginare degli occhi. Ecco allora gli ultimi eloquenti versi:
«Il torrente che adesso muore in Alleghe / poi risuscita corre voce al Piave»; non importa che ci sia una geografia, una geologia o una orografia che dia convalida a tutto ciò; più semplicemente, corre voce che il torrente faccia quel dato percorso. Il pensiero, infatti, è a volte una brutta cosa (Ah, Rodin!), e alcune cose della vita è meglio contemplarle così come sono, senza chiedersi perché e per come sono (Chi sa come).
Infatti, ci dice il poeta, il “perché” di molte cose «la scienza se lo sa non ce lo dice» (Sonni; si legga anche Senza un perché), tanto che, il più delle volte, l’occasione del poetare è come un fico semplice e schivo: «la sua gloria è l’imprevisto, / è quel nascere a caso, sulla spinta / sine causa di venti scriteriati» (Fiquoia in Padova?). Questo sembra il senso di un’altra affermazione di Ramat, quella per cui nulla di quanto lui scrive «potrà dirsi robusto» (Nulla di quanto): alle paludate pergamene egli, infatti, preferisce le indifese e impalpabili carte veline, quelle che nessuno più chiede in cartoleria.
Sono le stesse veline su cui egli annota, con un raffinato understatement, le cose che accadono, gli eventi che – per l’appunto – e-vengono e av-vengono da soli, senza che nessuno li ricerchi o li scovi appositamente (Le grandi cose), le cose che affiorano in «tempi rari, di oblio e di lontananza: / quando, senza un sospetto, la memoria / prorompe come un fiume e tutto è suo» (“Non mi ispira…”).
La memoria è un altro luogo cruciale di Corre voce: emerge allora il suggestivo ricordo di un Novecento che «si allontana, / isolotto perduto alla deriva / in un mare più grigio dell’acciaio» (So così poco di Genova), o il ricordo dell’infanzia che è «un chiodo perso ritrovato perso / ad ogni piè sospinto» (Il chiodo infanzia).
Le reminiscenze del passato, tuttavia, non sono prive di scotto o di inaspettati “effetti collaterali”: se la nostalgia ci spinge su su nella soffitta di famiglia, ove rispolveriamo un’antica sciabola sepolta dal tempo, improvvisamente la lama ancora affilata ci ferisce in un suo improbabile sussulto, facendoci sgorgare il vivo sangue (Armi di famiglia). Ma non c’è verso: la memoria è pur sempre la carta da giuoco di una partita che non finisce mai; «il sole è ancora alto», osserva Silvio Ramat, e vivere vuol dire un po’ anche ricordare (Circoli).
Articolo pubblicato sulla rivista: Materiali di Estetica, N.5.2, 2018
[Silvio RAMAT, Corre voce Edizioni “Stampa 2009” - a cura di Maurizio Cucchi Azzate (VA) 2018 - 115 pagine, 14 €]