Dopo le bombe di Capaci e via d’Amelio fu Santo Mazzei, detto "u'Carcagnusu", a fare da “apripista” alla strategia del terrore di Cosa nostra contro lo Stato. A rivelarlo il collaboratore di giustizia Giuseppe Di Giacomo, sentito mercoledì davanti alla Corte d’Assise di Caltanissetta dove si celebra il processo a carico del superlatitante di Cosa nostra Matteo Messina Denaro, accusato di essere uno dei mandanti delle stragi del 1992. Di Giacomo conosceva personalmente Santo Mazzei in quanto stretto alleato del clan dei Laudani di Catania di cui faceva parte il teste prima del suo pentimento nel 2009.
Il pentito rispondendo alle domande del pubblico ministero Gabriele Paci ha raccontato che Mazzei “mise un proiettile di artiglieria esploso al Giardino di Boboli di Firenze rivendicando l’attentato con la sigla di Falange Armata al fine di aprire quella stagione di terrore e assoggettamento”. Un’azione che rientrava, appunto, in quella strategia di sangue che avrebbe dovuto portare lo Stato a trattare con gli uomini della mafia. “Dopo che avvennero le stragi di Falcone e Borsellino fu ripristinato il 41 bis, inasprite alcune leggi e riaperte le isole di Pianosa e Asinara. Si pensò bene quindi - ha spiegato - di attaccare lo Stato affinché potesse intavolare una trattativa in modo da poter ridimensionare quello che era il 41 bis e gli inasprimenti a livello di legislatura come l’esclusione di benefici e l’ergastolo. Si pianificarono alcuni attentati - ha continuato - e il primo di questi fu quello prodotto da Santo Mazzei in compagnia di alcuni soggetti dell’organizzazione”. La vicenda che il teste Di Giacomo ha dichiarato essergli stata raccontata dallo stesso Mazzei, e in generale tutta la strategia stragista, non era vista con favore dalla potente famiglia catanese dei Santapaola, stretti alleati dei Laudani.
“I Santapaola facevano buon viso e cattivo gioco - ha affermato -. Nel 1992, quando già era stato ucciso Gaetano Laudani, Santo Mazzei mi disse: ‘Vedi che di qui a poco dovremmo intervenire e partecipare a qualche situazione’. Si trattava di attentati plateali”, ha spiegato il teste. In un secondo momento, allorquando Mazzei venne arrestato, “ne parlai coi Santapaola dicendo loro di dare seguito alle stragi perché nel frattempo erano già state piazzate alcune autobombe. Loro mi risposero di non preoccuparmi, che si stavano occupando di questioni nel contesto catanese e che comunque c’erano persone, tra cui Bagarella - Totò Riina in quel periodo già arrestato - i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, che si stavano occupando di queste vicende”. Risposero così, ha proseguito il pentito, “perché non volevano direttamente partecipare. O meglio si impegnavano a fare alcuni attentati”. Uno di questi “era l’omicidio dell’ispettore di Catania Giovanni Lizzio. Dicevano: ‘Noi partecipiamo con questo’. Inoltre per dar comunque dimostrazione di non essere persone dedite alle strategie volte ad attaccare le istituzioni dicevano che Lizzio era un colluso, insomma lo infangavano come se non fosse un poliziotto integerrimo”. E ancora, “sapevamo che queste erano azioni dirette a quelle strategie di terrore volute dai palermitani tra cui Matteo Messina Denaro - che non era di Palermo - ma era a tutti gli effetti inserito in quella strategia, Bagarella e i Graviano. E loro (i Santapaola, ndr) partecipavano con questo omicidio, come per accontentare con il minimo sindacale”. Non solo. Nel piano di attacco frontale allo Stato erano inseriti, secondo il pentito, anche alcuni uomini della Camorra.
“I Nuvoletta (potente clan camorristico di Napoli, ndr) erano stati investiti affinché partecipassero a quella strategia di terrore di Cosa Nostra” ha affermato il collaboratore di giustizia. Per giunta “Totò Riina passò un periodo di latitanza dai Nuvoletta e aveva grande considerazione di loro e di Valentino Gionta (camorrista vicino ai Nuvoletta che Di Giacomo conobbe personalmente nel carcere di Cuneo, ndr)”. In ultima battuta Giuseppe Di Giacomo si è soffermato brevemente anche sulla figura dell’imputato Matteo Messina Denaro. Il pentito, che ha affermato essere stato detenuto nel carcere di Tolmezzo con il capo mandamento di Brancaccio Filippo Graviano “e altri tre mafiosi”, ha rammentato che “non c’era giorno in cui non parlavamo di Matteo Messina Denaro. C’era uno stretto rapporto tra Filippo Graviano e Matteo Messina Denaro, a livello criminale - ha raccontato -. Filippo Graviano insieme a suo fratello Giuseppe e Matteo Messina Denaro passarono diversi momenti insieme in cui pianificarono le strategie di attacco alle istituzioni, andarono inoltre a fare dei sopralluoghi sotto le mentite spoglie di viaggi di divertimento con le loro consorti a Forte dei Marmi in Toscana, a Milano, in Sardegna, in laguna a Venezia”, ha concluso.
Le intercettazioni di Riina in carcere
In aula è stato sentito anche Salvatore Bonferraro, sostituto commissario della Polizia di Stato presso la Dia di Palermo. Bonferraro si è occupato del coordinamento di tutto il servizio di intercettazioni (audio e video) richiesto dalla procura di Palermo nei riguardi di Totò Riina, detenuto nel carcere “Opera” di Milano. Il teste è stato sentito, in particolare, per riferire su alcune delle conversazioni avute da Riina col compagno di detenzione Alberto Lorusso, esponente di spicco della Sacra Corona Unita. Esternazioni, queste, registrate dagli inquirenti nei momenti di passeggio, dove Riina si “sentiva tranquillo e si lasciava andare a dichiarazioni più importanti”. Il capo dei Capi, parlando del superlatitante di Cosa Nostra Matteo Messina Denaro “era molto adirato nei suoi confronti - ha affermato Bonferraro confermando le trascrizioni delle intercettazioni lette dal pm Paci - perché quest’ultimo si stava concentrando principalmente in attività economiche. Voleva che Messina Denaro continuasse a fare qualche cosa in quel periodo, nel 2013”. Un’altra intercettazione di spessore riguarda prettamente gli attentati in continente di Cosa nostra.
“Riina - ha dichiarato il commissario - non era d’accordo che Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella avessero spostato le bombe dalla Sicilia al continente perché lui diceva che ‘siamo siciliani e le dobbiamo fare qui’”. Quel servizio di intercettazioni era iniziato, ha spiegato Bonferraro, per ordine della procura di Palermo dopo che la stessa “era venuta a conoscenza, tramite il Dap, che due agenti della penitenziaria addetti alla vigilanza del Riina durante le pause del processo Trattativa avevano registrato il fatto che il Capo dei Capi aveva effettuato delle esternazioni”. In particolare, ha continuato Bonferraro, “ci colpì quando Riina disse che ‘non erano stati i Carabinieri ad avermi arrestato ma sono stati Provenzano e Ciancimino a farmi arrestare’. In un’altra circostanza aveva detto poi che ‘non sono stato io a cercare loro ma sono venuti loro da me per trattare’”. Il servizio di intercettazioni, in seguito avviato il 3 agosto del 2013 nel carcere di Opera, venne improvvisamente interrotto il 30 novembre del 2013 poiché “nel frattempo Riina, durante i suoi colloqui con Lorusso, aveva fatto delle esternazioni che avevano fatto preoccupare tutte le istituzioni. C’erano ragioni di tutela delle persone menzionate dal Riina”. Il riferimento è sulle gravi minacce rivolte al pubblico ministero Nino Di Matteo, che al tempo rappresentava l’accusa nel processo trattativa Stato-mafia dove Riina era imputato.
da AntimafiaDuemila