di Giacomo Laudicina
Quarta parte
Pecciò, picciotti mei, amà a fari accussì. Na ma puittari, na corda, un fanali e na sporta. Na sporta eo ci mettu a buccittina cu l’acqua santa e u strumentu pi ghittalla, i ru bacchette du lignu ru Signuri e n’accendinu. All’unnici e mezza ni viremu in’chiazza, n’assittamu na balata e quannu sintemu sunari a campana ni partemu. Quannu arrivamu na funtana, taliamu si dintra c’è a truvatura e si c’è poi a tiramu fora.
E si c’è puru u Beatu Signuri, chi facemu Mastru Pippì? Domandò con finta preoccupazione Nzino.
Viatri umm’aviti a scantari, eo ma mettiri a ginucchiuni e l’ha taliari fissu fissu na l’occhi, e tu Nzino meu, ma proiri, dopo chi mi signu, u strumento e l’acqua santa e poi i ru bacchette e sunzinn’ivà chi boni ittannuci l’acqua santa, ci facemu fari na fumata ‘ncruciannu i bacchette.
Speriamu, Mastru Pippì che è accussia comu rici Vossia.
Curaggiu picciotti, stanotti a truvatura ‘ncasa amà a puittari.
Il pozzo, chiamato nella contrada “a funtana”, è ancora tutt’oggi situato lungo una stradella non asfaltata che incrocia la strada comunale sulla sinistra che dall’abitato porta a valle al torrente Sossio a circa duecento metri dall’ultima abitazione. È situato a trenta metri dalla strada asfaltata, in un piccolo slargo, È un pozzo di sorgiva, adesso coperto di rovi, profondo circa due metri e durante l’estate allora andava in secca.
Poco prima che tramontasse il sole la combriccola di amici andò a sistemare la coffa dentro “a funtana”, Nzino nascose una bottiglietta piena d’acqua in un cespuglio d’erba adiacente alla fontana e poi sistemarono una grossa catena di circa un metro alla base di un tronco di ulivo situato lungo la strada che doveva essere percorsa per arrivare al pozzo.
Alle undici e mezzo Nardino si presentò in piazza e dopo un minuto arrivò Mastro Peppino con la sporta, la corda e il fanale. Nzino ritardava.
Nzino era in ritardo perché stava istruendo i tre “fantasmi” che già incappucciati si trovavano sul posto; poi l’altro amico che doveva rumoreggiare con la catena e infine l’ultimo che doveva salire sul basso tetto della sagrestia che dava poi accesso al piccolo campanile della chiesa.
Mastro Peppino, ad ogni minuto che passava, diventava sempre più nervoso per il ritardo di Nzino e nel giro di dieci minuti si era già fumato due sigarette e chiedeva continuamente a Nardino l’ora.
Minchia, to cucinu chi caspita fici, non è chi unn’ava veniri?
Mastru Pippì, mi rissi chi avia a veniri, ci chiu chi all’ultimu mumentu si ni pintiu.
Minchia, s’avissi a putiri viriri. arristannu tra niautri, eo ri stu fattu mi scantava.
Man mano che il tempo passava Mastro Peppino diventava sempre più nervoso.
A mezzanotte meno cinque arrivò Nzino.
Mastru Pippinu meo, ma va scusare, ma c’era me nonna chi si’ntisi male.
Eo ammumenti un ci spirava chiù. Va beni! Allura Nardi tu porti a corda e tu, Nzinu, u fanali e teccà l’accendinu. … A sporta ma pigghiu eo.
Era una notte calda, tipica del mese di agosto, dove non tirava un filo di vento, in cui qualsiasi piccolo rumore si avvertiva con nitidezza anche a notevole distanza.
Il primo rintocco della campana fece sobbalzare Mastro Peppino, che d’istinto si alzò di scatto e prese la sporta che era poggiata sulla balata, restando immobile fino al secondo rintocco.
Mi tremanu i ammi e m’acchiananu i brividi na schina, Mastru Pippi
Zittuti Znino e fatti curaggiu.
Dopo un intervallo più lungo che a Mastro Peppino sembrò un’eternità, si udì finalmente il terzo rintocco.
Subito si avviarono.
Mastu Pippì, unnà ma ‘ddrumari u fanali picchi si ci viri bono cu lustru ra luna, poi l’addrumamu drà quannu a ma pigghiari a truvatura rintra a funtana.
Bonu è Nardì!
Mastro Peppino camminava veloce e Nzino continuava a ripetere a bassa voce che aveva le gambe tremanti e si guardava continuamente indietro.
Ad un certo punto Nzino si fermò afferrando per un braccio Mastro Peppino e a bassa voce disse:
Ma viatri un sintistivu nenti?
No, chi sintisti?
A tipu scusciu ri catini.
No, un’ntisimu nenti. Rispose Nardino.
Iniziarono nuovamente a camminare, ma dopo pochi metri si fermarono di colpo voltandosi all’indietro di scatto. Stavolta il rumore di catene l’avevano sentito tutti e bene.
Mi scanto Mastru Pippì, eu mi ni vaio.
Statti cà, unn’iri fissarie. Rispose Mastro Peppino stavolta afferrandolo lui per il braccio Nzino.
Un succeri nenti. Fatti curaggio Nzinu meo. Un ti preoccupari, chissu è u Beati Signuri chi ni voli fari scantari, Ma iddru unnu sapi cuccù avi a chi fari!
I cigolii delle catene erano sempre più frequenti anche se più distanti e Nzino ad ogni rumore di catena afferrava il braccio di Mastro Peppino che continuava a ripetergli a bassa voce di avere coraggio e così, con fare guardingo, arrivarono alla fontana.
Il chiarore della luna illuminava anche il fondo del pozzo e quando si affacciarono videro il luccichio prodotto dalla segatura in fondo al pozzo.
Maronna santa, picciotti, veru a truvatura c’è. U viriti comu sbillicchia? Nzinu forza addruma u fanali.
Mastru Pippi, u mi pozzu moviri staio trimannu tuttu comu na buciareddra. Tinissi cà u fanali addrumatilu viautri.
Mastro Peppino adagiò la sporta sull’orlo del pozzo, prese il fanale e porse a Nardino l’accendino.
La fiammella dell’accendino era il segnale.
Un grido sovrumano li fece sobbalzare e girare di scatto. Una figura immane, vestita di bianco, si intravide a circa trenta metri. Il chiarore della luna rendeva ancora più spettrale quell’apparizione.
Nzino negli attimi di concitazione spinse la sporta dentro il pozzo e si aggrappò al braccio di Mastro Peppino facendo finta di tremare.
Mastro Peppino, dopo un attimo di smarrimento, si inginocchiò poggiando a terra un solo ginocchio, si fece il segno della croce e non distogliendo lo sguardo dalla figura disse a Nardino di porgergli la sporta.
Mastru Pippì, ma a sporta unnì l’avia Vossia?
Minchia, a sporta u c’è chiù - Rispose Nzino tutto concitato – squagghiau, … sa piggniaru.. Aiutu …….puru u fantasima ‘nvisibile c’è chi si futtiu a sporta, Mastru Pippì, …. scappamu.
Nello stesso istante da dietro quella figura ne apparvero altre due simili che emettevano dei rumori, simili allo schiocco di colpi di frusta. Le due figure cominciarono ad avanzare lentamente e a menare colpi di frusta in aria.
Mastro Peppino cominciò a tremare e incrociando gli indici delle mani inizio a dire ripetutamente:
V’astutu comu na cannila, …. v’astuto comu na cannila …..
E ogni volta che ripeteva quella frase soffiava sulle dita, ma le due figure non sparivano, anzi continuavano, inesorabilmente ma piano, ad avanzare verso di loro.
Nzino, in un attimo, nel mentre che Mastro Peppino ripeteva continuamente quelle frasi, prese la bottiglietta nascosta nel cespuglio e si versò dell’acqua sui pantaloni.
Mi … Mi …. Mi pisciai ri ncapu, ….sca…scappamu.
Nardino prese per un braccio Mastro Peppino, lo sollevò e d’istinto iniziarono a correre inseguiti dai due fantasmi. Nzino fece finta di cadere e raggiunto dai due che simulavano di percuoterlo con le zotte, cominciò a gridare come un ossesso.
Ahiai, …aiuto … mi stannu ammazzannu.. ….. ahiai aiuto….moru….
Poi i due fuggiaschi non sentirono più le grida di Nzino e si fermarono ansimanti, protesero le orecchie, il nulla, il silenzio assoluto. Mastro Peppino non riusciva a parlare. Dopo qualche minuto udirono dei passi, era Nzino che si avvicinava. Li superò non guardandoli, come se loro non ci fossero.
Cucì, chi ci’hai? parla.
E Nzino zitto, con lo sguardo fisso in avanti continuava a camminare.
Nzino chi ci’hai? parla.
Vogghiu iri a casa. Rispose Nzino con un filo di voce.
Mastru Pippì u portu ‘ncasa, ni viremu dumani matinu e parlamu.
Va bene, Nardì, mi raccumannu mutu.
Dopo aver lasciato Mastro Peppino sulla soglia di casa, i due cugini ritornarono alla fontana per ricongiungersi con la combriccola di amici che nel frattempo avevano recuperato la coffa con la “truvatura”, la sporta e tutti gli altri oggetti. Si scompisciarono dalle risate raccontandosi più volte le scene vissute.
Incaricarono Filippo di andare a riporre la sporta, con dentro la corda, il fanale, l’aspersorio, l’ampolla, l’accendino e i bastoncini di legno, sul davanzale della porta di casa di Mastro Peppino.
Mastro Peppino, arrivato a casa, spossato e ancora tremante, dopo essersi fumato due sigarette, una dietro l’altra, si andò a coricare, ma non riusciva a prendere sonno. Pensava che nel giro di un mese aveva avuto due occasioni per arricchirsi e intanto però si ritrovava ancora con le pezze nel sedere. Rivedeva tutte le scene. Rivedeva tutto quell’oro a portata di mano che brillava dentro il pozzo, i Beati Signuri chi “paria chi stavanu fermi” e nel mentre camminavano piano piano e si avvicinavano a loro, la sporta che era misteriosamente sparita. E dava la colpa della sparizione a se stesso perché doveva prevedere che u Beato Signuri sapesse cosa conteneva la sporta e non appena la posò per terra, no viriri e sviriri, gliela fece sparire e lui senza l’acqua santa e il potere dei rametti era impotente contro quella forza oscura e diabolica. Poi il sonno lo avvinse quando stava spuntando l’alba.
L’indomani mattina sua moglie aprendo la porta di casa, per iniziare a scupari u chianu, vide la sporta sul davanzale e immaginando che il marito se la fosse scordata fuori, la prese e la andò a posare sulla sedia di lavoro nella bottega.
Dopo un po' Mastro Peppino fu svegliato dalla moglie che si era preoccupata perché a quell’ora, cosa che mai, il marito fosse ancora a letto.
Mastro Peppino quando si recò nella bottega emise un grido di spavento non appena vide la sporta posata sulla sua sedia e cominciò a parlare ad alta voce, come se nella stanza ci fosse qualcuno e, nel contempo, a visionare il contenuto della sporta.
Cumpà, oramai ti canusciu, chi fai mi sfutti, …… mi veni a purtari sinu ‘ncasa mia a sporta chi assira ti futtisti. A prossima vota chi ni viremu, ummì futti chiù, picchì i bacchetti stavota mi tegnu ‘mmanu e ti fazzu a viriri eo. Avanti fatti a viriri ….. si hai curaggiu.
Prese l’aspersorio e l’acqua che credeva benedetta e cominciò ad aspergerla per tutta la stanza ripetendo ad alta voce di continuo, quasi gridando:
Veni cà, fatti a viriri, ora, si hai curaggio. …….. Veni cà, fatti a viriri, ora, si hai curaggio …
La moglie che nel frattempo era entrata nella bottega si strammau tutta vedendo cosa faceva il marito e andandogli dietro chiedeva:
Peppinu, beddra madri santa, chi ti successi? …. Ma chi scisti foddri, …… chi sta facennu? ….. Cuccù parli?
Mastro Peppino, continuando a camminare per la stanza e a ripetere la stessa frase, ogni tanto si girava e aspergeva pure la moglie con l’acqua.
Fu distolto da una voce che lo chiamava e riconobbe essere quella di Nardino.
Mastru Pippinu meo, c’è Nzinu chi sta murennu, avi a freve, savuta a mezzu lettu e dici cosi senza senzu, pari chi è pussirutu.
Si tu mi rici accussì,…. pussirutu è!
Allura chi dici Vossia, comu a ma fari? Cummeni ririccillu o parrinu, chi pi sentulu riri, iddru è sapituri ri sti cosi.
Bonu è, Nardi, accussì a ma fari. Oè! Però cià diri sulu chi è pussirutu senza cuntarici autru nenti.
Ah, Mastru Pippì c’addiri puru natra cosa. Mi sunnai tutta a notti u Beatu Signuri chi riria, un finia chiù ri ririri.
Stu curnutu ni sfutti Nardi, …. a mia mi fici a truvari a sporta chi spariu assira ‘ncapu a seggia.
Ma chi dici Mastru Pippì, veru è?, ….. sta arristannu alluccutu!
Nel tardo pomeriggio Nardino ritornò a trovare Mastro Peppino.
Mastru Pippinu meo, cià cuntari soccu successi.
Chi successi?
Eo ì a chiamari u parrinu e ci cuntai chi Nzninu savutava a mezzu lettu, chi dicia cosi chi un si capianu. Dopo un pocu Iddru arrivau ‘ncasa ri Nzinu cu u strumentu uguali a chiddru chi avi vossia pi l’acqua santa. Appena ci ittau l’acqua ri ‘ncapu Nzinu si quitau.
Tu ricia eo. Bona finiu.
Unnà finutu! Appena Nzinu si quitau u parrinu fici nesciri a tutti ra cammara e ni rissi chi Nzinu si vulia cunfissari.
Minchia, chissa un ci vulia. Canuscennu quantu è ‘ntrisichero, sicuramente su spurpau sanu sanu, tutti i saroddruli ri ‘nculu ci tirau.
Stesiru ammeno un’ura e mezza ‘nchiusi rintra a cammara.
Quannu sciu,…. chiamau a mia e mi rissi si puru eo mi vulia cunfissari.
E tu chi facisti?
Ci rissi chi unn’avia piccati ri cunfissari. Mastru Pippì eu pensu però …. chi pi dirimi na cosa ri chissa …… avia esseri sapituri ru fattu ….. picchì Nzinu ci l’avia cuntatu.
Pensu proprio di sì. Nzinu astura d’unnè?
‘Ncasa sua, chi avi ancora tanticchia di freve.
Allura vacci e ti fai riri si ci cuntau u fattu ra truvatura u parrinu.
Va bo, Mastru Pippì ci sta ennu.
Subito dopo cena Nardino si ripresentò a casa di Mastro Peppino.
Parlai cu Nzinu, è ancora u pocu strammatu e ogni tantu si metti a trimari e mi rissi chi quannu parlava cu parrinu i paroli ci scianu suli suli, u parrinu addumannava e iddru arrispunnia. Però un sà ricorda di soccu parlaru.
Tu ricu eo, Nardi, u parrinu d’un latu ci livau a pussiruta e di l’avutru latu ci fici a cosa fatta e si fici cuntari di Nzinu tuttu u fattu, paru, paru.
Accussì rici Vossia? Allura stu favusu ri parrinu accussì sapi tutti cosi ra truvatura. Intantu, si Vossia si ricorda, stasira amà sentiri si a campana a mezzanotte sona arrè.
Minchia, veru è Nardi, mi l’avia scurdatu, tu mi ricisti chi a campana sona pi du notti ri seguitu.
Si, Mastru Pippì, ma a pigghiari a truvatura un ci putemu iri niautri dui suli, amà essiri pi forza tri. Eo pinsava si sona arrè, significa chi sona sempre a ogni luna china e accussì o prossimu misi, ciccamu di pissuariri arrè a Nzino, ma si iddru un ci voli veniri, ciù ricemu a nautru. ‘ntantu stasira a mezzannotti na ma viriri ‘n chiazza.
Fine quarta parte