Nella sua civiltà millenaria la città che fu l’antica Alicia, oggi Salemi, ha molto da raccontare e raccontarsi poiché il patrimonio storico-culturale e artistico è notevole. Mi soffermo su tre siti archeologici che tutt’oggi sono oggetto di ricerche e di continue attenzioni da parte degli studiosi.
Iniziamo con il sito preistorico di Mokarta, risalente al II millennio a. C., allocato su una collina a pochi chilometri da Salemi, prospiciente la Valle di Mazara. In esso, sino a pochi decenni fa, si osservavano i ruderi di un castello medievale, di fattura arabo-normanna. I primi scavi iniziarono nel 1970 facendo emergere, sulla collinetta “Cresta di Gallo”, una necropoli di circa un centinaio di tombe a “tholos” (“grotticella”, con pianta circolare e talvolta piccolo dromos, corridoio d’accesso), scavate nella roccia, racchiudenti più inumati con un corredo funerario, costituito da ciotole e coppe su piede alto, risalenti alla prima età del bronzo. In seguito agli scavi, effettuati (1994-1996-2003) dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici della provincia di Trapani, sulla sommità della collina emersero una più piccola necropoli e i resti di un antico villaggio capannicolo databile tra il XIII e il X secolo a. C., dal Bronzo Antico a quello Recente, con una tipologia unica, nel contesto, in tutta la Sicilia: capanne circolari con ingresso doppio a “forcipe” o “a tenaglia”, con vestibolo e alcune con locali adiacenti quadrangolari non comunicanti tra di loro, fungenti probabilmente da magazzino. Avevano una regolarità incredibile: l’alzato, composto d’argilla e legno, era impiantato su un muretto largo, mentre la copertura presentava un’apertura centrale per la fuoriuscita del fumo, al centro del pavimento battuto si trovava un focolare, attorno al quale sono state rinvenute macine in pietra, pesi di telaio e vasi di vario genere. Le capanne dovevano essere ricoperte verosimilmente da una cupola di rami e fango, autosostenentesi e inglobati in muretti che dividevano i clan. Doveva essere un villaggio sicano strategico e per questo probabilmente fu incendiato. Sono state rinvenute tracce di un improvviso abbandono per la rivalità con l’etnia elima (X sec. a. C.) e relativa incursione: tutti gli utensili di terracotta trovati a terra e carbonizzati dalla caduta della copertura della capanna che bruciando si è abbattuta. Toccante è stato nel contesto il rinvenimento, in prossimità dell’ingresso, dello scheletro di una giovane donna, di circa 14 anni (denominata Nina), con un vaso in mano, proprio mentre era in procinto di mettersi in salvo e rimasta schiacciata dal crollo delle macerie e insepolta. Oltre cento reperti, quasi integri, sono stati rinvenuti all’interno della capanna 15: vasi di uso domestico, boccali, scodelle, coppe su piede, olle e vasi rituali. Sono reperti preziosi per ricostruire una civiltà, unica nel suo genere, di una Sicilia ricca di storia.
Una rioccupazione del sito si pensa che sia avvenuta in epoca medievale, testimonianza tangibile è la costruzione del castello.
Un secondo sito di rilevante interesse archeologico è quello di Monte Polizo (725,9 m. sul livello del mare), ubicato tra Segesta e Selinunte, a 6 Km a nord-ovest da Salemi, risalente all’incirca tra il VII e VI secolo a. C. L’identificazione della civiltà che abitava questa zona è ancora incerta, poiché sono state ritrovate sia ceramiche Sicane che Elime, anche se si è più propensi a considerarlo un insediamento Elimo. Occupata, verso l’anno 325 a. C. dai Punici e successivamente, tra il 950 e il 1000 d. C., vi si sviluppò, in parte su strutture preesitenti, un piccolo villaggio. Era uno snodo importante per gli scambi di quella zona occidentale, soprattutto con i Cartaginesi, e forse, per interrompere questi commerci, fu distrutto dai Greci. I resti riguardano una superficie di 34 ettari circa e hanno interessato l’acropoli, la necropoli, la Casa e le zone adiacenti.
L’acropoli presenta una struttura circolare di carattere sacro. Gli scavi iniziarono nel 1970 a seguito di ritrovamenti di frammenti fittili e si sono concentrati attorno alla casa scoperta da Vincenzo Tusa nel 1976, attorno alla quale sono state ritrovate tracce d’insediamento dell’età del Bronzo, dell’età del Ferro, con tracce greche, e altre risalenti al VI secolo a. C.; si succedono fasi che si protraggono fino al IV secolo a. C. ed è di quest’ultimo periodo il rinvenimento di una stele di incerta sistemazione, contraddistinta da un elemento rettangolare centrale che ricorda i “betili” fenici (in cui la figura della divinità è ridotta a un piccolo rettangolo verticale centrale). Dopo questo periodo non c’è un’evidente permanenza abitativa. Il ritrovamento di un ornamento in pasta vitrea denota il collegamento con il mondo punico e con quello greco.
La necropoli ha permesso di scoprire che le pratiche dell’inumazione e dell’incinerazione erano allora usanze funerarie.
La Casa 1 era un’abitazione civile e in essa sono stati trovati resti importanti: i pithoi (ampi contenitori per l’approvvigionamento), pesi da telaio, una punta di freccia in bronzo, una lucerna, una capenducola, il frammento di un vaso con fine lavorazione, un’anfora proveniente dal Mediterraneo orientale, e vari oggetti. Di notevole attenzione è una struttura circolare, usata forse per la tessitura. È stato rivelato il buono stato di conservazione di cereali in cucina e l’esistenza di piante selvatiche provenienti da altre zone esterne a Polizo.
È di particolare attrattiva il rinvenimento di una struttura muraria la cui dislocazione interessa un po’ tutta l’area e rappresenta la cinta muraria di difesa: nel saggio “S” si parla di blocchi rettilinei che si chiudono a curva, si pensa essere una torre di difesa posta all’ingresso della città.
Il terzo sito, di piccole dimensioni ma di notevole valore, poiché è l’unico esempio ritrovato nella parte occidentale dell’Isola, è quello attorno alla Basilica peleocristiana di San Miceli, databile tra la fine del IV e il VI-VII secolo d. C. Si trova a valle della Città, verso la zona Nord. La chiesa è dedicata all’Arcangelo San Michele (il culto nacque in oriente. L’imperatore Costantino I dal 313 gli rese un tributo speciale nei territori dall’Africa settentrionale alla Sicilia; alla fine del V sec. il culto si diffuse in Europa). Fu scoperto nel maggio 1893 in seguito al ritrovamento di una moneta d’oro e, con la speranza di trovare altri tesori, si diede l’avvio a degli scavi demolitori che pregiudicarono i resti: la pavimentazione a mosaico della stessa basilica e la profanazione dei sepolcri. I lavori, sollecitati da due illustri salemitani, appassionati di archeologia: Giovanni Baviera e Antonino Lo Presti (cfr. S. Agueci, Personalità salemitane degne di memoria, pp. 18-19; 88-89), furono avviati, dopo il primo sopralluogo effettuato il 20 agosto dall’archeologo Antonino Solinas, dal 23 settembre e si protrassero fino al 2 novembre. Gli scavi confermarono che si trattava dei resti di una chiesa cristiana dei primi secoli (si presume che sia stata la prima in Sicilia, poiché il Battistero era collocato nel retro della chiesa, di solito si trova nei pressi dell’entrata), disposta: sul lato est il narcete e a ovest l’abside e di alcune tombe. La basilica, di modeste dimensioni, monoabsidata a pianta longitudinale, era a tre navate, divise da due file di cinque pilastri (dimensioni stimabili 14,50 x 14,75 m.) ed è unica nello schema architettonico del tipo basilica cimiteriale a tre navate. All’interno parecchie tombe a fossa (c. 58 ispezionate) rivestite di pietrame a secco e coperte da grezze lastre di tufo, contenevano di norma un solo scheletro, a volte due, appartenenti, alcune, a famiglie facoltose; sono stati ritrovati, infatti, orecchini d’oro e d’argento, anelli d’oro e d’argento a fascetta, anelli di bronzo e ferro, fibbie, piastre d’oro (in origine una collana), forme in pasta di vetro. Attorno alla basilica si trovavano numerose abitazioni, di cui si erano conservate strutture murarie e pavimenti in cocciopesto o mosaico.
Ma l’annotazione di notevole interesse è il rinvenimento dei pavimenti musivi sovrapposti, relativi a tre diverse fasi di ricostruzione dell’edificio, denominati rispettivamente: fase A, B e C. Si denota il coesistere di uno stile decorativo della tradizione geometrica classica e floreale. Le scritte in latino hanno indotto ad attribuirle al VI sec d. C., mentre le altre, in greco, sono databili al V sec. Alla fase A (VI sec.) appartiene il ritrovamento del pavimento superiore, molto danneggiato. Rimane un’iscrizione in latino MPORIBUS NTIFICIS PATRIS EPISC OMINUSDO NORISF IOLICE, sicuramente un’epigrafe dedicata alla basilica. Al momento della scoperta furono ritrovati cocci di tegole e terra bruciata, i resti delle travi in legno di un tetto devastato da un incendio: la distruzione dei luoghi di culto era usuale durante il periodo della persecuzione dei cristiani avvenuta in quella fase storica. Della seconda fase B è la scoperta di scritte in greco (si riferiscono al V sec.). Il pavimento è in mosaico ed è diversificato: a ovest da uno schema geometrico di forme ottagonali e quadrati, comprendenti motivi floreali stilizzati, nella metà a est da quadrilateri irregolari e da rombi. Vi si trovano, poi, cinque iscrizioni musive, quattro in greco e una in latino, con la menzione di alcuni benefattori: Kobouldeus e Maxima - Zosimos - Saprikios - Makarios – Dionisius, l’epigrafe riferita a quest’ultimo è funeraria: “il presbitero Dionisio visse in pace 55 anni”. La più antica costruzione risale al IV sec. d. C. L’elemento più interessante di questa fase C è il frammento musivo trovato nella parte est: i colori predominanti sono il rosso e il bianco e le tessere sono molto grossolane e disconnesse.
Un particolare contributo alla ricerca archeologica nel territorio salemitano l’ha data Nicola Spagnolo negli anni più recenti (ib. pp. 120-121). Il materiale rinvenuto finora, quello restaurato, si trova nelle stanze del museo civico, a disposizione del pubblico e degli studiosi, il resto è ancora a deposito, in attesa di una prossima catalogazione.
I siti richiedono scavi ulteriori. Quest’anno (agosto 2020) l’Amministrazione comunale di Salemi, con il favore del Parco archeologico di Segesta, ha istituito tre giorni per dei ‘trekking archeologici’ alla scoperta dei siti, ma i percorsi si vorrebbero rendere stabili.
Il portare alla luce la vita dei nostri antenati non è solo una questione di cultura ma, andare alla scoperta delle nostre radici, significa guardarci allo specchio della vita per sistemarci affinché l’umanità diventi più presentabile nella sua bellezza e attrattiva nelle forme, per sviluppare, a sua volta, il desiderio ancestrale di ricerca del contingente per risalire al “non definito”.
Salvatore Agueci