Colpo di scena. Tredici anni di indagini e polemiche, cancellati in cinquanta secondi di lettura del dispositivo.
Nel pomeriggio di ieri la Corte d’Appello di Palermo ha assolto l’ex senatore Marcello Dell’Utri e gli ex carabinieri Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno nell’ambito del secondo processo sulla cosiddetta e presunta “trattativa Stato-mafia”, cioè la teoria secondo cui alcuni organi dello Stato avrebbero trattato con la criminalità organizzata siciliana con l’obiettivo di costringere i governi in carica ad adottare un atteggiamento più morbido nei confronti della mafia stessa.
La precedente sentenza della Corte d’Assise di Palermo, arrivata nel 2018 dopo cinque anni di processo, aveva condannato gli imputati: Dell’Utri, Mori e Subranni a 12 anni di carcere, De Donno a 8 anni. La Corte d’Appello ha quindi di fatto ribaltato la sentenza di primo grado, confermando solo due condanne, quella di Leoluca Bagarella – cognato di Totò Riina – e quella di Antonio Cinà, entrambi boss mafiosi. La condanna di Vito Ciancimino a 8 anni in primo grado era stata invece già dichiarata prescritta durante il dibattimento.
Il reato di cui erano accusati gli imputati era di “minaccia a un corpo politico”. L’accusa dei magistrati della Procura antimafia Nino Di Matteo e Francesco Del Bene – che avevano condotto le indagini in primo grado – era che nel corso degli anni Novanta carabinieri e politici avessero trattato con la mafia siciliana con lo scopo di far terminare i violenti e numerosi attacchi avvenuti nei cosiddetti “anni delle stragi”, all’inizio degli anni Novanta: tra gli altri, quelli contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche le bombe in via dei Georgofili a Firenze e in via Palestro a Milano, le autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e il fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo.
In cambio della fine della strategia stragista, secondo i magistrati dell’accusa, politici e carabinieri avrebbero offerto l’attenuazione del carcere duro per i mafiosi che si trovavano in prigione, trattando con l’ex sindaco di Palermo (condannato per associazione mafiosa) Vito Ciancimino. La tesi della difesa era stata che il dialogo instaurato dai carabinieri con la mafia fosse stata una semplice operazione di polizia con lo scopo di catturare il boss mafioso Totò Riina, e non una trattativa. Adesso la sentenza di appello ha accolto la tesi della difesa.
Sempre nel primo processo, Dell’Utri – già condannato in un altro processo per concorso esterno in associazione mafiosa – era stato invece accusato di aver fatto da tramite in un’ulteriore trattativa tra il 1993 e il 1994, portata avanti con il boss mafioso Bernardo Provenzano per minacciare Silvio Berlusconi – al governo dal maggio del 1994 – e convincerlo a promuovere leggi favorevoli alla criminalità organizzata.
INGROIA. “È una sentenza che va valutata attentamente e per questo si devono attendere le motivazioni. A me pare comunque che, secondo i giudici di appello, la trattativa c’è stata ma gli investigatori avrebbero agito a fin di bene. Da qui la loro assoluzione perché il fatto non costituisce reato“.
È questa la spiegazione proposta dall’ex magistrato Antonio Ingroia sulla sentenza del processo per la trattativa Stato-mafia che è stata letta ieri in Corte d’Assise d’appello nell’aula bunker del carcere Pagliarelli di Palermo. Secondo Ingroia, i giudici avrebbero quindi confermato “l’esistenza di un papello con le richieste dei boss“.
“Il dispositivo – aggiunge – mi induce a pensare pure che, secondo la Corte, il papello sarebbe arrivato al potere politico, cioè al Governo. E così si spiega la condanna di Antonino Cinà, il medico di Riina accusato di avere portato ai suoi interlocutori l’elenco delle richieste“.
“Il procedimento – continua – è passato attraverso vari livelli di verifica: il giudice per le indagini preliminari ha deciso il rinvio a giudizio degli imputati e la Corte d’Assise ha emesso una sentenza di condanna. L’accusa aveva quindi portato elementi importanti e le nostre non erano fantasie giudiziarie“.
“Qualcuno potrebbe pensare, certamente sbagliando, che pagano solo i mafiosi. Non vorrei dare ragione a Totò Riina il quale sosteneva di essere diventato il ‘parafulmine’ di tutto“, conclude Ingroia.