Tra i Briganti e la Librineria, anche attività di recupero scolastico e laboratori culturali. La popolazione si riappropria di un territorio per troppo tempo deturpato dalla criminalità organizzata
“Ama l’ovale ed odia il razzismo” è lo slogan, il rosso il loro colore, “Brigante se more”, di Eugenio Bennato, l’inno. I Briganti, squadra di rugby di Librino, hanno rivoluzionato strutturalmente il quartiere della periferia di Catania, progettato per essere “città ideale” dal suo architetto, Kenzo Tange, ma danneggiato dalle mani della mafia. Che, ad oggi, ha perso. Perché i Briganti sono antimafia, antirazzismo ed entusiasmante volontariato. Tolleranza e parità di genere. Diffondono cultura e inclusione, uguaglianza e bene gratuito, promuovendo l’importanza dello sport e dell’istruzione, della conoscenza e del rispetto indiscriminato.
Angelo Scrofani è stato rugbista nei Briganti. Ha allenato le giovanili e, in seguito, la senior, fino a diventare il vicepresidente della squadra. Poi, lo studio e il lavoro l’hanno allontanato da Catania. In generale, non ama i titoli. Si definisce Brigante, e appassionato.
Prima del vostro arrivo, com’era Librino? E come nascono i Briganti?
Per quanto all’anagrafe siano nati nel 2006, quello che è stato il genitore dei Briganti è individuabile nel centro di Iqbal Masih, un centro sociale di aggregazione che nacque a Librino nel settembre del ’95 dopo l’omicidio di Iqbal, un bambino pakistano assassinato nell’aprile di quell’anno, all’età di 13 anni, dalla mafia dei tappeti in Pakistan. Fu un piccolo sindacalista. Un gruppo di volontari, nel ’95, occupò una bottega a Librino, in viale Moncada, e iniziò a fare attività con i minori del quartiere, cercando di portare avanti l’insegnamento del piccolo Iqbal che diceva che nelle mani di un bambino dovrebbero stare penne e colori, non strumenti da lavoro. In un quartiere come Librino si è cercato di fare attività con i bambini facendo doposcuola, per passare anche al teatro e ai laboratori di riuso di materiali, e in questo enorme contenitore si pensò di provare anche il laboratorio sportivo, individuando nel rugby una disciplina che potesse avere un qualcosa oltre lo sport.
Tra gli obiettivi della squadra di Librino vi è il recupero del ruolo sociale e culturale del rugby. Qual è la filosofia e la missione di questo sport?
Il rugby, tra le regole non scritte, prevede il rispetto del proprio compagno di squadra, dell’avversario e dell’arbitro. In piccolo, è un po’ come bisognerebbe stare al mondo in una società. Portare avanti questi valori in ragazzi che vivono in un contesto in cui comunque l’istituzione non esiste e si palesa, magari, solo sotto campagna elettorale, non è così scontato. Tra i valori c’è il rispetto verso chiunque si trovi intorno, la partita è il momento in cui devi dare il massimo per i tuoi compagni anche se, alla fine, quella è stata solo una partita e quelli che ti ritrovi davanti non sono nemici ma avversari. Noi diciamo sempre che giochiamo con una squadra e non contro. Io ho iniziato a giocare a rugby da piccolino, all’età di circa 9 anni, e il mio approccio alla vita lo rivedo in tanti altri rugbisti.
Perché, come ci si relaziona in seguito? Perché giocare a rugby?
Sembra una banalità ma ti rendi conto che in una squadra di rugby serve il basso e il magrolino, quello più grande, il più veloce ma anche il più lento. Ogni ruolo è quasi un mondo a parte in cui ognuno, con le proprie competenze, dà un contributo affinchè la squadra vada avanti. Il fuoriclasse a rugby non fa la differenza. È molto forte l’idea di essere parte di qualcosa, non avere un’individualità che primeggia sul resto del gruppo.
Voi Briganti tempo fa siete stati costretti a lasciare il campo da calcetto e a vagabondare. Poi, nel 2012, avete occupato un impianto pubblico a San Teodoro Liberato. Perché costretti e com’è nata l’occupazione?
Questo campo da calcetto fa parte dell’impianto del San Teodoro e si trova nelle vicinanze del centro. Inizialmente i ragazzi si allenavano in un parcheggio, poi hanno iniziato a usare questo campo che, in seguito, venne dato in gestione a qualche squadra di calcio e, così, iniziò questo periodo da nomadi in giro per i campi della provincia. Se per noi adulti la difficoltà era limitata, per i ragazzini non era per niente facile se si considera che Librino, a parte qualche strada più interna, è collegata al resto della città da una bretella di tangenziale. Non sempre dietro questi ragazzini c’erano delle famiglie presenti che li accompagnavano e, molto spesso, noi della senior organizzavamo dei turni di accompagnamento per farli allenare. In questi anni abbiamo anche organizzato una raccolta firme per chiedere che il San Teodoro, struttura costruita per le Universiadi del ’97 che si tennero a Palermo e mai utilizzata, ci venisse affidata per operare nel quartiere. Cosa sempre negata dall’amministrazione. Nel 2011, uno dei nostri ragazzini finì in giri malavitosi non limpidi. All’epoca avrà avuto 12 anni, finì in qualche casa famiglia perché beccato a spacciare e nel febbraio del 2012 morì in un incidente col motorino le cui dinamiche non sono ancora particolarmente chiare. Ci siamo sentiti il peso di questa perdita che ci diede la spinta per agire e tornare all’interno del quartiere. Ad aprile del 2012, abbiamo deciso di occupare e liberare il San Teodoro restituendolo nuovamente al quartiere. Questa cosa permise a tanti ragazzini che abitavano lì in zona di accedere facilmente all’impianto e allenarsi o iniziare a giocare per la prima volta. Durante il vagabondare tanti ragazzi del quartiere li abbiamo persi, inevitabilmente.
Ci sono anche ragazzi i cui genitori sono stati reticenti o lo sono ancora?
Considera che stiamo parlando di un quartiere che conta 80mila anime. Sulla legge dei grandi numeri abbiamo dei genitori che magari non abbiamo mai visto al campo, ma ce ne sono tanti altri che sono diventati parte attiva. Prima della pandemia abbiamo avuto un folto gruppo di genitori molto attivi nella squadra, che magari organizzavano i terzi tempi, quando, cioè, a fine partita si mangia con gli avversari. Stare qua dentro permette di creare una comunità.
A proposito dei genitori, leggevo della prima trasferta a Treviso. Alcuni di loro lo consideravano un luogo pericoloso dimenticando, però, la realtà da cui provenivano. Com’è possibile, talvolta, non riuscire a vedere il male strutturale di dove vivi?
Un ruolo importante lo gioca sicuramente l’ignoranza. Il fatto che tu conosca quello che c’è al di fuori del tuo orto delle volte ti fa paura, quindi so che qui la situazione è quella che è però ci sto dentro. Di contro, però, ci può essere quel sentimento sano da genitore per cui il fatto che il figlio vada fuori un po’ preoccupa. Ma è una situazione tra il tragico e il comico.
Ma non penso si tratti sempre di paura del nuovo. Se quest’ultimo è un bene, perché non abbracciarlo?
Delle volte per comprendere il bene e il male devi metterli a confronto. Stiamo parlando di ragazzi che spesso non sono mai usciti dalla provincia di Catania per cui attraversare lo Stretto di Messina era veramente una traversata atlantica. Per questo ti parlo di un’ignoranza in senso buono. Io, tu riusciamo a dare un senso alla parola bene, male, migliore, peggiore, ma rimangono tutti concetti relativi, devi avere in mano due cose per poter capire che una è migliore dell’altra. In un certo senso, questa paura da genitore la comprendo.
Non c’è solo una squadra di rugby ma anche una biblioteca, la Librineria, un progetto scuola e gli orti urbani. Chi finanzia questi progetti?
Ritorniamo al volontariato.
Non avete mai ottenuto finanziamenti statali?
No, abbiamo magari dei sostenitori della squadra che ci aiutano come fossero degli sponsor ma sono semplici sostenitori. Ci sono, poi, sostegni privati o autotassazioni della squadra. Nel 2012, il primo grosso progetto che ha affiancato quello sportivo è stato quello degli orti urbani, dato da una comunità di ortolani autotassatasi.
Questo è un progetto che diffonde dignità ed emancipazione. Che problemi ha lo Stato nel sostenere, anche finanziando, queste iniziative?
Potrei anche dire che problemi ha lo Stato nel finanziare la cultura in generale. Purtroppo è una domanda a cui non so se posso dare risposte non banali, ma una buona parte di motivazioni potrebbe essere politica. Se dovessi vederla in modo esageratamente pessimista penserei al fatto che Librino e altri quartieri italiani sono dei bacini di voti importanti e non sempre l’emancipazione e la dignità politica dell’essere umano vanno d’accordo con una situazione che si viene a creare in fase di campagna elettorale. Librino, i politici, se la ricordano sempre il mese prima delle elezioni. Il contesto dei Briganti penso non vada ristretto a Librino e, ancor meno, al campo San Teodoro. Sono delle realtà in cui troppo spesso la politica è causa del degrado che vive una comunità. Non sono politologo e rimangono solo le mie idee a riguardo, ma credo che il problema della politica sia la sua distanza dal cittadino. Lo zoccolo duro, poi, nasce sempre da un lavoro di volontariato.
Il vostro progetto, a questo proposito, toglie i ragazzi anche dalle mani delle mafie. La lotta alla criminalità organizzata non dovrebbe avere colore politico. Alla fine c’è in ballo la democrazia, e i valori dello Stato e delle istituzioni. L’antimafia, quindi, dovrebbe essere sì politica, ma senza colori. A volte, però, i politici hanno un colore che è mafioso. Ci sono mafiosi che diventano l’uditorio di comizi elettorali o che finanziano determinati partiti, come accaduto con Fratelli d’Italia. La lotta alla mafia, oggi, ha un colore politico?
Hai usato tutti i tempi verbali corretti, tutti condizionali. Non dovrebbe averlo. Hai fatto l’esempio di Fratelli d’Italia, che è quello a cui pensavo, dato che ci sono degli indagati per ‘ndrangheta. Da quello che vedo, purtroppo nessun colore, al momento, sta cercando di fare realmente antimafia. Io dico sempre, forse anche provocatoriamente, che una realtà come la nostra non dovrebbe esistere perché dovrebbe essere lo Stato a dare accesso a un quartiere di 80mila abitanti a una struttura. Il semplice fatto che esistano i Briganti ma anche tante altre associazioni, insomma, il fatto che debba essere un privato a sopperire a una mancanza istituzionale è già un grande problema.
Ed è anche una sconfitta per le istituzioni che sembrano non rendersene conto.
Ma probabilmente se ne rendono conto e, per questo, non possono sostenere troppo apertamente queste associazioni, perché farlo sarebbe un modo per dire che non ce l’hanno fatta.
O, forse, se ne rendono conto per archiviare il caso come realtà difficile senza giungere allo step successivo, quello in cui la si deve affrontare. Prima hai parlato di attacchi. C’è stato un incendio doloso che ha provocato la perdita di oltre 4mila libri, poi atti di vandalismo e furti, tra cui un’idropulitrice, un defibrillatore, una porta blindata sfondata e un van per le trasferte. Ma anche una macchina del caffè, fili di rame, faretti dell’illuminazione, succhi e merendine per i terzi tempi. In questi casi, le istituzioni si sono affacciate sul territorio?
A volte solo per la classica passerella istituzionale, altre sono state realmente vicine, quindi, anche senza telecamere, si sono fatte vive. Poi, però, ci siamo risollevati da soli. Il grande evento macabro è stato l’incendio del 2018 per cui si è mossa la città, e anche le istituzioni hanno avuto una scossa ma, poi, siamo andati avanti con le nostre gambe, e ci siamo rialzati, come ci si rialza da un brutto placcaggio, grazie anche al sostegno incredibile di tutta Italia e non solo. Quella notte siamo corsi al campo e lo sconforto era veramente esagerato, perché sono quelle batoste che per un attimo ti fanno pensare che non puoi fare nulla. Poi, l’indomani mattina, verso le 10 e mezzo il mio cellulare aveva già la batteria scarica per la valanga di messaggi e telefonate che sono arrivate per chiedere cosa fosse possibile fare per darci una mano. Questo sostegno ci ha fatto capire che il lavoro fatto aveva un senso e aveva un senso continuarlo.
I colpevoli sono stati riconosciuti?
Bellissima battuta. Non si ha idea. Io penso anche che possa essere stato di matrice politica, ma sono tutte supposizioni. Che sia stato doloso non c’è alcun dubbio anche solo analizzando i danni strutturali che ci sono all’interno, in quella che era la vecchia Club House intitolata proprio a Peppe Cunsolo, il bambino che abbiamo perso nel 2012. Io sono ingegnere e, guardandoli con occhio clinico, sono danni che non possono essere stati causati da carta che brucia. Sicuramente è stato utilizzato qualche combustibile portato da fuori. Un atto voluto e premeditato: non ti ci trovi dentro una libreria con una tanica di benzina. Ufficialmente quei locali sono sotto sequestro, ma non c’è stata alcuna risposta. All’indomani, però, ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a lavorare per sistemare l’impianto, abbiamo creato una Club House nella quale c’è ancora la Librineria, che è molto più grande di prima. Da quelle ceneri è nato qualcosa di ancora più bello.
Due mie curiosità. Nella stagione del 2008-2009, a giugno, è stato organizzato un torneo inserito nel calendario delle iniziative che sostenevano il progetto di sport sociale rugby a Gaza, con il fine di aprirvi una squadra di mini rugby. Quindi, avete organizzato una raccolta fondi. Ci siete riusciti?
Si è fatta la raccolta, è stata mandata e, che io sappia, è stato avviato il progetto, acquistando il materiale per iniziare a metterlo su. Purtroppo, però, quella zona di mondo continua a essere martoriata, quindi, con buona probabilità, non possono pensare al rugby oggi.
Sicuramente. Seconda curiosità: offrite anche supporto psicologico?
Questa è una cosa a cui abbiamo pensato tanto. Non abbiamo ancora trovato le figure che possano portare avanti un progetto del genere. Devi trovare delle persone competenti e che possano stabilmente dare una mano. Spesso anche qualche amico medico ci proponeva di provare a fare un centro che fosse di supporto psicologico e non solo, però ancora non è attivo.
Le biblioteche sono, oltre a un punto di incontro, un mezzo di lotta alla dispersione scolastica ma anche culturale. Che cosa significa una biblioteca in un quartiere come Librino?
Una biblioteca è già un presidio di cultura ma, qui, ha un valore aggiunto. Spesso tanti ragazzi che frequentavano (e frequentano) il campo non era detto che a casa studiassero. Qui, una biblioteca può far scattare una scintilla nei bambini. A Librino, la causa della dispersione scolastica è l’accesso alle strutture. All’interno del quartiere, fino a qualche anno fa, non esisteva un istituto superiore. Ci sono solo tanti istituti comprensivi. La dispersione scolastica partiva dalla terza media. Vi è, inoltre, anche la difficoltà a raggiungere le strutture, ed è un deterrente se la voglia non è tantissima, ma, soprattutto, se non hai alle spalle una famiglia che ti spinge a intraprendere questa strada. In un contesto del genere avere una libreria ha una valenza grossa sociale e culturale.
Il progetto si propone il miglioramento della relazione tra i residenti e il territorio. Com’è cambiata? E com’è cambiata, per i ragazzi, la visione della mafia?
Premettendo che Librino è un quartiere dormitorio, dato che ci sono solo palazzoni e qualche supermercato, l’aver creato un polo così variopinto al campo ha creato sicuramente una comunità che si sta riprendendo i propri spazi. Alcuni ragazzi, purtroppo, la malavita la vivono tutti i giorni, non per forza a casa ma anche girando per il quartiere, chiamiamolo così, complicato. Che è sempre una denominazione che a me non piace perché un quartiere non è complicato, è reso tale dalle amministrazioni.
Si fa prima ad archiviarlo così, insomma.
Sì, è uno scaricabarile. Un quartiere non può nascere complicato, lo diventa a causa di contorni. Molto spesso, come si parla con semplicità del quartiere complicato, allo stesso modo si parla degli abitanti, come se fossero tutti dei criminali che fanno quella vita per scelta. Spesso questi ragazzi non hanno una scelta, per loro la strada è segnata ed è quella. Il nostro lavoro fondamentalmente è solo quello di mostrare un bivio, poi saranno loro a scegliere che strada prendere. Non li salvi tutti e non deve essere neanche questo il fine. All’inizio, quando molti ci prendevano per pazzi, io ho sempre sostenuto che salvarne uno comunque valeva il costo del biglietto. Fortunatamente se ne sono salvati tanti: non ne abbiamo salvati tanti. Mostriamo solo che le strade sono almeno due, che sta a te scegliere quale prendere ed è giusto che tu lo sappia. La libertà non può prescindere dalla consapevolezza. Puoi essere libero di scegliere la strada sbagliata, ma almeno l’hai scelta tu.
I briganti sono delle persone illegali, talvota dei fuorilegge e dei clandestini. Quanto è necessario, oggi, essere un clandestino?
Ci chiamiamo Briganti perché sì, nel brigantaggio ci sarà stato anche qualche fuorilegge, ma i briganti si sono armati per difendere il proprio territorio da un’invasione. La squadra si è posto il fine di prendersi cura del proprio territorio. Delle volte, probabilmente, l’antagonista era quell’amministrazione troppo spesso assente.
Il vostro quartiere è stato progettato negli anni ’70 dall’architetto Kenzo Tange come una città ideale rimasta incompiuta, però, per le infiltrazioni mafiose. Andrea Camilleri diceva che la mafia è “un’escrescenza tumorale” che, come tutti i tumori, è difficile da estirpare. Nonostante questo, a me sembrate il Circolo Musica e Cultura di Peppino Impastato che si fa quartiere. Vi immagino come una realtà che lotta il razzismo, la mafia, la società patriarcale che è un sistema che strutturalmente prevede la sottomissione. Siete uno spazio, un modo alternativo in cui tutti e tutte ce la possono fare, e tutti e tutte hanno il diritto di essere. In un certo senso, quindi, città ideale lo è diventata.
Hai detto due cose bellissime. Intanto, ci paragoni a Peppino Impastato e, da siciliano, ho gli occhi lucidi. Il complimento della città ideale me lo prendo. Si è creato sicuramente un microclima di consapevolezza per i più piccoli, ma c’è ancora tanta strada da fare. Vivendola umilmente in prima persona non mi sento di prendermi questo grande merito di essere riusciti a creare una città ideale, però ci sta che magari questo non sia il primo passo per renderla reale.
Oltre al supporto psicologico di cui abbiamo parlato prima, quali sono gli altri progetti che state cercando di attuare, se ce ne sono?
Al momento, si sta cercando di ripartire dopo questi due anni. Il nostro nuovo presidente è uno dei ragazzi che è cresciuto con noi sin dal mini rugby. Abbiamo un direttivo giovanissimo che sta cercando di ripartire. La priorità è questa. Non ci sono nuovi progetti imminenti se non i lavori che continuiamo a fare all’interno delle scuole, poi il progetto degli orti, quello sportivo ma anche culturale della Librineria, e la speranza che la situazione possa ritornare a essere il più normale possibile. I ragazzi hanno preso il nostro testimone e stanno continuando con lo stesso entusiasmo.
Io, intanto, spero che le istituzioni vi diano tutti i riconoscimenti che meritate.
Sarebbe una cosa in più. Per noi, è stato bello quando alcuni dei nostri ragazzi ci hanno detto di voler fare il test di ingresso per l’università, per esempio.
Indubbiamente. Voi attuate, di fatto, quanto scritto nella Costituzione. La esercitate. Offrite possibilità, rispettate i diritti lì scritti. Per questo spero che tutti si accorgano di voi, e vi conoscano e riconoscano.
Ma fondamentalmente stiamo rispettando la Costituzione, quindi non stiamo facendo nulla di straordinario.
La realtà creatasi a Librino è un presidio di democrazia. È vero che tutelare le persone in quanto esseri umani è ordinariamente riconosciuto e affermato da chi è educato al rispetto, ma lo è altrettanto il fatto che quest’ultimo non sia ancora, purtroppo, così scontato.
Qui, a Librino, la mafia perde.
Giorgia Cecca