A pochi giorni dal trentennale della Strage di Via D’Amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta, non c’è nessun colpevole per il depistaggio sulle indagini della strage.
Prescritti i reati per i poliziotti Mario Bo e Fabrizio Mattei, mentre Michele Ribaudo è stato assolto "perché il fatto non costituisce reato". Erano tutti accusati di concorso in calunnia aggravata dall'aver favorito Cosa nostra nel processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio e, in particolare, per aver contribuito a "vestire il pupo", ovvero a "costruire" il falso pentito Vincenzo Scarantino.
Nuova inchiesta sul depistaggio, troppe reticenze - E intanto ci sono già i nomi dei possibili indagati per una nuova inchiesta sul depistaggio della strage Borsellino. I nomi li ha fatti il tribunale che ha dichiarato la prescrizione per i due poliziotti dell’allora gruppo “Falcone Borsellino”. Ecco chi sono: Maurizio Zerilli, Angelo Tedesco, Vincenzo Maniscaldi e Giuseppe Di Gangi, tutti componenti della squadra. Per il tribunale, non avrebbero detto tutto quello che sanno. Questo il motivo per cui saranno iscritti nel registro degli indagati della procura nissena per falsa testimonianza. Sono troppi i “non ricordo” negli interrogatori fatti dai pubblici ministeri Gabriele Paci, oggi procuratore a Trapani e Stefano Luciani, oggi sostituto procuratore a Roma. Il nuovo fascicolo è affidato al pubblico ministero di Caltanissetta Maurizio Bonaccorso, che già da qualche mese segue il caso depistaggio. Al pm Bonaccorso e al procuratore capo Salvatore De Luca la decisione se fare appello contro la sentenza che ha fatto scattare la prescrizione per l’ex dirigente del gruppo “Falcone Borsellino” Mario Bò e per l’ispettore Fabrizio Mattei, il collegio presieduto da Francesco D’Arrogo ha deciso anche l’assoluzione per l’ex ispettore Michele Ribaudo. L’appello è quasi una certezza e anche la difesa punta al secondo grado di giudizio.
Le reazioni a trent’anni dalle stragi, dopo la sentenza sul depistaggio che ancora una volta allontana dalla verità.
Maria Falcone: «Come sorella di Giovanni Falcone e come cittadina italiana, provo una forte amarezza perché ancora una volta ci è stata negata la verità piena su uno dei fatti più inquietanti della storia della Repubblica — scrive in una nota Maria Falcone — la prescrizione è sempre una sconfitta per la giustizia che, specie in processi tanto delicati, evidentemente non è riuscita ad agire con la celerità che avrebbe dovuto avere». Ma la sorella di Giovanni Falcone non si arrende nella ricerca della verità sulle stragi: «Dal dispositivo, che asserisce l’esistenza del depistaggio e la responsabilità di due dei tre imputati, emerge comunque la conferma dell’impianto della procura di Caltanissetta che, con un lavoro coraggioso e scrupoloso, ha fatto luce su anni di trame e inquinamenti investigativi. Questa sentenza arriva a una settimana dal trentesimo anniversario della strage di via D’Amelio che ancora una volta vedrà i familiari di Paolo Borsellino, ai quali esprimo tutta la mia vicinanza, in attesa della verità».
I figli di Paolo Borsellino, per loro parla l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia: «Lucia, Manfredi e Fiammetta ora hanno il sacrosanto diritto di elaborare questo lutto, dopo trent’anni», dice il legale all’AdnKronos. Così continua, coinvolgendo tutti i cittadini: «Questa sentenza interpella la collettività e l’opinione pubblica, io mi rendo conto che questo è un Paese anestetizzato che dedica più spazio alla separazione di Totti piuttosto che al depistaggio di via D’Amelio, però la collettività deve essere informata e deve cominciare a pretendere comportanti diversi e soprattutto la verità. Che non sarà più processuale ma la verità storica che si pone al di fuori di ogni alto condizionamento». E infine la valutazione di Trizzino della sentenza, che a suo parere «consolida lo scenario descritto nella sentenza del processo Borsellino quater. Il depistaggio c’è stato e il vero dominus è stato Arnaldo La Barbera».
Antonio Vullo, l’unico agente sopravvissuto in Via D’Amelio: «Sono amareggiato. Da noi accadono gli eventi, ci sono situazioni comprovate, ma poi alla fine non paga mai nessuno. Ci aspettavamo un simile esito. Nell’aria si intravedeva qualcosa del genere. Siamo tanto amareggiati, sfiduciati. Non ci sono parole». Vullo, ancora una volta, ha scelto di andare solo in via D’Amelio per il minuto di silenzio il prossimo 19 luglio: «Non andrò dove ci saranno tutte le personalità. Ho perso un po’ di fiducia e non mi ritrovo più in certi ambienti».
La storia del depistaggio in quattordici processi senza una verità - Cinque processi in trent'anni, che diventano quattordici se si contano anche gli appelli e le decisioni della Corte di Cassazione. Più di trenta giudici si sono espressi su quanto accaduto alle 16.58 del 19 luglio del 1992 in via D'Amelio. Sono state emesse condanne, anche all'ergastolo, assoluzioni, e c'è stata una revisione per delle condanne a vita inflitte ad innocenti che nulla c'entravano con la strage in cui furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
"Borsellino Uno" - Una storia lunga, lunghissima. Il primo processo, il cosiddetto "Borsellino Uno", ha preso il via dopo le dichiarazioni di quello che si rivelerà essere poi un falso pentito, Vincenzo Scarantino. A presiedere la Corte d'assise di Caltanissetta era il giudice Renato Di Natale. Il 26 gennaio 1996 fu emessa la sentenza con la condannato all'ergastolo per Salvatore Profeta, Giuseppe Orofino e Pietro Scotto e a 18 anni di reclusione per il collaboratore Vincenzo Scarantino, come richiesto dalla Procura.
In secondo grado, la Corte d'appello, conferma l'ergastolo solo per Profeta, invece Orofino venne condannato per favoreggiamento a nove anni e Scotto fu assolto. Nel frattempo Vincenzo Scarantino, l'ex picciotto della Guadagna, aveva già ritrattato le sue accuse. La Corte d'assise presieduta da Pietro Falcone, il 13 febbraio 1999, aveva emesso la condanna a sette ergastoli per Salvatore Riina, Pietro Aglieri, Carlo Greco, Giuseppe Graviano, Francesco Tagliavia, Salvatore Biondino e Gaetano Scotto e altre dieci per associazione mafiosa.
"Borsellino bis" - Il 18 marzo 2002 la Corte d'appello, presieduta da Francesco Caruso, aveva modificato la sentenza, aumentando gli ergastoli così da portarli a tredici e infliggendoli anche a Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Lorenzo Tinnirello, Gaetano Murana e Giuseppe Urso. Dopo la clamorosa ritrattazione, Scarantino decise nuovamente di tornare sui propri passi. E in parte venne creduto dai giudici. Quella del 2002, è la sentenza che venne poi travolta dalla revisione. Nel frattempo, la Procura generale aveva portato in tribunale anche un nuovo collaboratore di giustizia, Calogero Pulci. Il verdetto del 18 marzo 2002 aveva restituito piena credibilità all’intero racconto del 'picciotto' della Guadagna rivalutandone integralmente le dichiarazioni.
"Borsellino ter" - A gennaio del 2003 si concluse il processo "Borsellino ter" in primo grado. Il collegio presieduto da Carmelo Zuccaro, l'attuale procuratore capo di Catania, aveva inflitto 17 ergastoli e 175 anni di reclusione, dieci le assoluzioni. Condanne a vita per Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Giuseppe Farinella, Raffaele Ganci, Antonino Giuffrè, Filippo Graviano, Michelangelo La Barbera, Giuseppe e Salvatore Montalto, Pippo Calò, Bernardo Brusca, Matteo Motisi, Bernardo Provenzano, Salvatore Biondo, Cristoforo Cannella, Domenico e Stefano Ganci. Ventisei anni per il pentito Salvatore Cancemi, 23 per Giovanbattista Ferrante, 16 a Giovanni Brusca.
In appello, per Cancemi e Ferrante era arrivato uno sconto di pena: la Corte presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo gli aveva riconosciuto l'attenuante prevista per i collaboratori di giustizia. Ma dei 22 ergastoli chiesti dalla procura generale, ne fu decretato solo uno. Non confermati quelli inflitti in primo grado per Stefano Ganci (condannato a 30 anni), per Giuseppe Farinella, Giuseppe Madonia, Nitto Santapaola, Nino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi, condannati a 20 anni. La sentenza della Suprema Corte, di annullamento con rinvio di alcune posizioni, ha determinato un nuovo processo d'appello, a Catania.
Gaspare Spatuzza - Nel frattempo irrompe sulla scena un nuovo collaboratore di giustizia. Il suo nome è Gaspare Spatuzza. Inizia a raccontare particolari sulla strage di via D'Amelio e a dire, con forza, che Vincenzo Scarantino ha detto solo fandonie. Perché non poteva sapere nulla di quella strage. Inizia dunque una nuova fase di indagini per la Procura nissena. La Procura di Caltanissetta, diretta da Sergio Lari, ha chiesto, dunque, l’emissione di quattro ordinanze di custodia cautelare, riguardanti il capomafia pluriergastolano Salvino Madonia perché accusato di aver partecipato nel dicembre 1991 alla riunione della Cupola in cui si decise l’avvio della strategia stragista, ma anche i boss Vittorio Tutino e Salvatore Vitale. Il primo rubò con Spatuzza la 126 per la strage; il secondo abitava nel palazzo della madre di Borsellino, in via D’Amelio, e avrebbe fatto da talpa. Un quarto provvedimento ha riguardato il pentito Calogero Pulci, l’unico in libertà. Per lui l'accusa era di calunnia aggravata, perché con le sue dichiarazioni avrebbe finito per fare da riscontro al falso pentito Vincenzo Scarantino.
Vengono passate al setaccio le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Che racconta tanti dettagli, tutti veritieri. I magistrati e gli investigatori della Dia di Caltanissetta iniziano a conoscere i retroscena della strage Borsellino, organizzata dal clan mafioso di Brancaccio, diretto dai fratelli Graviano. Ma resta un mistero: chi era l'uomo che il giorno prima della strage avrebbe partecipato alle operazioni di caricamento dell’esplosivo sulla 126, in un garage di via Villasevaglios, a Palermo? Spatuzza ha sempre detto di non conoscerlo. Forse appartiene, pensano i magistrati, ai servizi segreti. A confermare le parole di Spatuzza sugli esecutori della strage di via D’Amelio è la confessione di chi si era accreditato come collaboratore di giustizia attendibile, depistando le indagini sull’eccidio del 19 luglio 1992.
"Borsellino quater" - Soltanto nel 2017, con l’esito del processo Borsellino quater primo grado (sentenza del 20 aprile) e quello del processo di revisione (sentenza del 13 luglio), si è conseguita la certezza della inattendibilità inconfutabile ed irreversibile di Scarantino, di Andriotta e degli altri collaboratori a loro legati. Dunque l’incontestabile falsità delle rispettive propalazioni. A mettere una pietra tombale sui processi sulla strage di via D'Amelio è la Corte di Cassazione, che nel processo Borsellino quater scrive: "La strage di via d'Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto a una ben precisa strategia del terrore adottata da Cosa Nostra, in quanto stretta dalla paura e da fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il 'maxiprocesso', potendo le emergenze probatorie relative a quelle 'zone d'ombra' - in parte già acquisite in altri processi, in parte disvelate dal presente processo - indurre, al più, a ritenere che possano esservi stati anche altri soggetti, o gruppi di potere, interessati alla eliminazione del magistrato e degli uomini della sua scorta".
La Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo per i boss palermitani Salvatore Madonia e Vittorio Tutino, condannando per calunnia i falsi collaboratori di giustizia Calogero Pulci e Francesco Andriotta (per quest’ultimo con un lieve sconto di pena di 4 mesi) confermando la sentenza emessa dalla Corte d’assise d’appello di Caltanissetta nel novembre 2019. Con la sentenza sul "più grande depistaggio della storia giudiziaria italiana", si arriva a quattordici processi, ma si rimane ancora in attesa di sapere cosa realmente accadde quel pomeriggio del 19 luglio del 1992.