Mia nonna, una volta, mi chiese di accompagnarla dalla parrucchiera. All’ora concordata andai a prenderla a casa, aspettando poi che finisse, facendo un giro in centro. Uscendo mi disse: «Non portarmi subito a casa. Devo farmi una fotografia …». «Hai la tessera che sta scadendo?» le chiesi. La tessera, nel nostro linguaggio, era la carta di identità. «No – rispose, mentre già eravamo arrivati davanti la cabina in piazza dove si facevano le foto a gettone – mi voglio fare la foto per quando muoio, oggi che sono sistemata».
Le foto dei morti, una volta, erano roba delicata. Soprattutto per chi lavorava nei giornali. Nel mio breve periodo di garzone di bottega in un quotidiano palermitano, durante gli anni universitari, avevo il compito di trovare le foto delle vittime degli incidenti stradali. Non era facile, ma c’era chi, in passato, aveva dovuto fare di peggio: trovare le foto delle vittime della guerra di mafia. Ogni tanto mi fermavo a guardare le foto, le foto dei morti, le foto delle lapidi. Quegli sguardi solenni, intensi, perché è l’immagine che resta per sempre, e deve essere buona. Gli uomini avevano un vestito elegante (solitamente era uno scatto di quando avevano accompagnato la figlia all’altare, per i più fortunati), certe donne, invece, a guardarle da vicino, quasi odoravano di messa in piega appena fatta.
Oggi non c’è bisogno di cercare le foto dei morti, per gli incidenti, come per i delitti. Sono tutte sui social. E la prima cosa che si fa, pigramente e pruriginosamente, è scavare sulla bacheca del defunto per cercare un primo piano buono da pubblicare. Solitamente le immagini che si prendono, per gli articoli o per le lapidi, sono quelle migliori, e sono quelle che facciamo in vacanza. Chissà perché. Magari perché siamo più luminosi, o più rilassati, oppure è il contesto – il mare, il paesaggio – che fa la sua parte. Fatto sta che, vedendo gli avvisi funebri, scorrendo le lapidi, oggi, sembra che ci sia stata una strage in un villaggio turistico. Non ci sono più i morti di una volta.
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Chissà quale foto metteranno nella tua lapide, adesso, Matteo. Tanto per cambiare, in queste ore frenetiche in cui tutti mi fanno le stesse domande (cosa succede adesso? chi dopo Messina Denaro? quali segreti porta con se? come cambia la mafia?) io mi faccio la domanda più stupida: ma che foto metteranno nella tomba di Matteo Messina Denaro?
Quando ti hanno preso, il 16 gennaio scorso, successe una cosa simile. Tutti si chiedevano dov’eri stato in questi dannati trenta anni di latitanza, cosa facevi, chi ti aveva protetto, se eri proprio tu. Io passai la mattinata a cercare informazioni sulla tua salute, e chiedevo in giro: sì, ma quanto campa ancora? E tutti mi dicevano: ma che ti importa? Invece secondo me era importante. Perché prendere un boss nel pieno della sua salute e della sua forza è un conto. Prendere un dead man walking, è un altro.
Ma adesso è l’ultima volta che ti scrivo, Matteo, io che ho parlato con te dalla mia radio per quasi vent’anni, e non sono abituato a parlare con i morti (se no parlerei con mia nonna per chiederle scusa che poi quella foto non l’abbiamo messa, nella sua lapide, ne abbiamo preferita un’altra). E quindi, Matteo, io ti parlo da vivo, e ti immagino ancora nel limbo, anzi, mentre stai attraversando il bardo, e ti chiedo, l’ultima inutile domanda: che foto ci mettiamo nella lapide?
Perché una tua foto, vera, non c’è. L’unica che abbiamo è quella fatta dai Carabinieri dopo il tuo arresto. E nessuno vorrebbe nella lapide una foto segnaletica. E allora una foto da ragazzo, penso. Ce ne sono un paio, di tue, che girano, immagino qualcun’altra in famiglia. Ma quel ragazzo alto, con gli occhiali da sole, i capelli lunghi e l’aspetto un po’ da Scarface alla siciliana, non sei tu. Lo sei stato per poco.
E allora? Ah, c’è il tuo identikit. Quanto lo abbiamo utilizzato. Era l’immagine ricostruita al computer durante la tua latitanza, con un effetto di «age progression», così detto. In pratica, ogni due o tre anni, la polizia diffondeva il tuo presunto volto aggiornato, secondo l’età che passa, per tutti, anche per gli invisibili come eri tu.
Ma sarebbe una cosa un po’ dadaista mettere nella lapide una ricostruzione al computer del tuo volto (quando poi abbiamo scoperto che, chi lo doveva dire, il tuo volto era quello di tuo fratello e della tua famiglia, e che ogni tanto l’intelligenza artificiale dovrebbe lasciare il passo al normale corso, sinuoso, delle cose). Insomma, una tua foto per la lapide non c’è. Una foto fatta per restare non ce l’abbiamo.
A meno che, beffa delle beffe, anche tu hai fatto come mia nonna, qualche tempo fa, uscendo dal barbiere e con il vestito buono, ti sei fatto una foto, lasciando detto che, chissà, un giorno, magari, sarebbe potuta servire.
Sarebbe il tuo ultimo gioco di prestigio. Il penultimo è stato farti prendere quando tutto era finito. Un po’ come tuo padre, che si è consegnato allo Stato, che lo cercava, solo da morto e già vestito per il funerale. Tu hai sublimato la cosa. Ti sei consegnato da morto, sì, ma con congruo anticipo per goderti il gusto della sorpresa, come in quella canzone di Jannacci: «Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale / e vedere di nascosto l’effetto che fa». Ecco, tra le tante cose che hai combinato in vita, ci puoi mettere anche questa. In un certo senso, davvero, tu sei andato al tuo funerale. Ecco perché adesso altre cerimonie non ti interessano più.
Ti sei consegnato che andavi a morire, ti sei goduto lo spettacolo – noi a scannarci su quanto fosse giusto curarti – e hai continuato a nasconderti: il super carcere era quello che volevi, per tornare ad essere invisibile. Di te rimangono quelle quattro o cinque foto scattate nella concitata giornata del 16 gennaio 2023 e nulla più. Nessuno ti ha più visto, nemmeno in un’aula di tribunale. Per noi sei sempre con il giubbotto di pelle e quell’imbottitura bianca e calda. Ti ricorderemo così.
Già, ricordare. La morte divide, soprattutto la morte di un criminale. C’è chi prova pena, chi ricorre alla pietas, chi invoca dannazione eterna e si dispera perché, anzi, dice, un criminale come te avrebbe dovuto soffrire di più. La morte non è nulla, Matteo. Te lo scrivo mentre sei nel bardo, ma so che non hai paura: la morte non è nulla. Devi avere paura di un’altra dannazione. Che è appunto il ricordo. La memoria. La tua dannazione è proprio questo, non avere un’immagine da esporre.
La tua dannazione è quella che Italo Calvino chiamava la colonna dei gesti perduti, il lato morto della storia. Tra qualche anno nessuno si ricorderà di te (e te lo dico io, che faccio parte in qualche modo dell’indotto, dato che sulla tua vita ho scritto pure dei libri), mentre ancora oggi parliamo di Peppino Impastato, per fare un nome, di Mauro Rostagno – oggi è il suo anniversario – di tante altre vittime tue e della mafia. Perché loro sono vivi, e restano. Tu sei nella colonna dei gesti perduti.
Tutto quello che tu hai fatto e pensato è perduto, cancellato dalla storia. Noi invece continuiamo a camminare in questo bosco di larici che è la vita, e cerchiamo di mantenere vive quella promessa: ogni mio passo è storia.
Giacomo Di Girolamo