Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
26/11/2023 06:00:00

Il dibattito sulla carne coltivata che non abbiamo avuto


Una settimana fa è stato approvato il disegno di legge che proibisce la produzione e la commercializzazione di cibi e mangimi “coltivati”, ovvero prodotti con colture cellulari. 

 

Come spesso accade nel nostro paese, il dibattito ha assunto fin da subito i connotati della tifoseria da stadio, da un lato i favorevoli e dall’altro i contrari, i progressisti contro i conservatori, i devoti alla scienza contro i tradizionalisti. E così l’argomento è diventato immediatamente polarizzante e divisivo e, piuttosto che capire di che cosa si stava parlando, ci si è limitati a fare quello che noi italiani sappiamo fare meglio di chiunque altro: litigare.

 

In un mondo ideale, il dibattito pubblico sulla carne coltivata si sarebbe invece concentrato su altri aspetti, forse meno entusiasmanti da trattare in talk show o meno adatti al clickbait, ma decisamente più interessanti per costruire un dibattito serio sul futuro dell’agricoltura in Italia. 

 

  • La carne coltivata nasce da un’esigenza reale.

  •  

    Prima ancora delle aziende multinazionali, la carne coltivata è stata studiata nei laboratori di molti istituti di ricerca e i motivi che hanno spinto i ricercatori di tutto il mondo a mettere a punto questi processi di coltivazione, hanno a che fare con l'indubbio e significativo impatto sull'ambiente degli allevamenti tradizionali. La FAO stima che entro il 2050 la domanda di carne aumenterà del 76%, rispetto a quella del 2005, e oggi quasi l'80% delle terre coltivabili è destinato all'allevamento e al nutrimento degli animali. Quindi, abbiamo un problema chiaro: il mondo chiede più carne, ma noi non abbiamo più terra a disposizione da dedicare a quest’industria. Da qui la ricerca di soluzioni.

     

  • La carne coltivata risponde ad un’esigenza di mercato

  •  

    Si sa, non di sola ricerca vive l'industria alimentare e affinché una certa tecnologia abbia successo, deve incrociarsi con una richiesta che arriva dal mercato. In Italia un terzo dei consumatori dichiara di consumare solo occasionalmente carne e uno dei motivi che sempre di più spinge le giovani generazioni a scegliere un certo prodotto è legato alla sostenibilità del suo processo produttivo. Secondo alcuni studi, il consumo di carne tradizionale nei paesi già pienamente sviluppati come il nostro, tenderà quindi a ridursi e nel mondo occidentale si registra un’apertura nei confronti della carne coltivata. Basta mettere in fila queste informazioni per capire che la domanda per prodotti come la carne coltivata, nonostante sia ancora impossibile da quantificare, possa ragionevolmente crescere e se questo prodotto si accaparasse anche solo il 10% del mercato della carne tradizionale, arriverebbe a valere circa 170 miliardi di dollari all’anno. Le aziende multinazionali conoscono bene questi dati e infatti si sono buttate a capofitto su quella che sembra essere diventata la nuova febbre dell’oro: nel 2021 i progetti legati alla carne coltivata hanno raccolto capitali per 1,4 miliardi di dollari.

     

  • La carne coltivata è solo la punta di un iceberg, chiamato “proteina alternativa”.

  •  

    Ciò di cui non si è parlato -troppo presi a litigare tra favorevoli e contrari- è che la carne coltivata non è che la punta di un iceberg ben più grande e ancora pressoché sommerso: il futuro dell’alimentazione globale si sta infatti giocando sulla “proteina alternativa”. È dall’esigenza di trovare un modo sostenibile di produrre proteine per 9 miliardi di persone che nasce non solo la carne coltivata, ma svariati prodotti a base proteica, come pesce, latte e uova “alternativi”. La maggior parte delle aziende leader globali nel campo delle proteine animali, a differenza nostra, non perde molto tempo in chiacchiere e ha già acquisito quote significative nel settore delle proteine alternative: Tyson, Bell Food Group, Cargill, e molte altre hanno già le mani nella marmellata o, per meglio dire, nella proteina alternativa. Insomma, i colossi della carne sanno bene che nel lungo periodo il mercato occidentale è destinato a contrarsi e stanno già mettendo in campo delle strategie per diversificare il proprio rischio.

     

  • Il dibattito polarizzante è controproducente

  •  

    Nessuno che conosca le dinamiche di mercato può ragionevolmente credere che la carne coltivata spazzerà via un intero settore economico, come quello dell'allevamento tradizionale italiano. Piuttosto lo costringerà rivedere molte cose, metterà in crisi alcune filiere e ne farà nascere delle nuove. Al tempo stesso però, non possiamo illuderci che una legge nazionale che vieti l’ingresso di questo prodotto nel nostro paese, possa davvero tutelarci da eventuali effetti negativi sull’economia, soprattutto in un paese come il nostro che vive di export agroalimentare. Se un'innovazione ha ragione di esistere, è sicura e viene apprezzata dai consumatori, si impone inevitabilmente sul mercato. E prima o poi anche i nostri allevatori dovranno farci i conti, direttamente o indirettamente. Non sappiamo che ne sarà della carne coltivata, se avrà un futuro o se sarà stato solo fumo negli occhi, ma ciò che ha portato allo sviluppo di questa tecnologia, rimane l’unica certezza che abbiamo: il mondo cerca proteine, coltivate in maniera sostenibile. E questo è ciò su cui ci saremmo dovuti interrogare negli ultimi mesi, in modo tale da trasformare quella che oggi consideriamo una minaccia, in un'opportunità per migliorare la nostra filiera della carne, rendendola più innovativa, più sostenibile, più trasparente, più etica.

    Una settimana fa, quindi, più che chiudere le porte ad una tecnologia non ancora commercializzata in Europa, abbiamo sostanzialmente perso un’occasione preziosa per ripensare al nostro sistema produttivo, per gettare le basi di un’industria delle proteine tutta Made in Italy e, più in generale, per raccontarci come ci immaginiamo il futuro dell’alimentazione sostenibile in Italia.

    Mariangela Figlia