Cosa andiamo a ricordare il 19 luglio di ogni anno? Forse sarebbe il caso, in questa ridda di giornate che compongono il nostro calendario di cittadini perbene, in questo scadenzario da perenne chiamata alle armi, che prevede la giornata della memoria e quella del ricordo, quella della poesia e quella dell’impegno, quella per la terra e quella per pace (ma l’elenco è interminabile: prossimamente abbiamo la giornata mondiale delle mangrovie, quella della tigre…) di fare del 19 luglio la giornata nazionale del depistaggio, o dell’anti-stato – se vogliamo creare un titolo a effetto – o della grande vergogna.
Perché il 19 luglio non è solo il giorno della fine straziante di Paolo Borsellino e degli agenti della sua scorta, uccisi nel pomeriggio di una domenica di luglio con un’autobomba in via Mariano D’Amelio: è anche l’inizio del più scandaloso, vergognoso, – appunto – depistaggio della storia recente della Repubblica Italiana.
Anno dopo anno questa consapevolezza prende sempre più forma. Ed è di questo che si deve parlare. Non dell’eredità del giudice, delle sue frasi con le quali abbiamo fatto magliette e striscioni, della sua aurea di santità postuma con la quale lo abbiamo circondato, o di quanto era cattiva Cosa nostra, della spietatezza degli uomini di Totò Riina, dei Graviano, di Messina Denaro. No. Non ne parliamo più.
Parliamo di noi. Cioè dello Stato, di quello che è successo non alle 16:58 del 19 luglio 1992, in quella via stretta tra la centralissima via Libertà e il parco della Favorita, ma di quello che è accaduto dalle 16:59 in poi, cioè dal minuto successivo, di come tutto questo sia stato possibile, anche facile, senza nessun colpevole.
«Si è fatto scempio della verità», dice oggi Lucia Borsellino, figlia di Paolo. Attenzione, non sta dicendo che non si sa la verità, dice una cosa diversa: che c’era (c’è?) una verità, da qualche parte, ma è stata maciullata, come il corpo del magistrato.
Ecco perché dobbiamo dire e scrivere che Paolo Borsellino è vittima due volte. Perché dopo il suo strazio, è stata fatta strame anche della verità sulla sua morte, è stato oltraggiato, è un corpo oggi che non trova pace. E trentadue anni dopo mancano ancora tasselli importanti per ricostruire quel periodo buio e fare luce. Il depistaggio continua ancora adesso.
La ricorrenza, di anno in anno, diventa dunque questo: un’occasione per aggiornare lo stato dell’arte su trame e sottotrame. Adesso ci sono altri quattro poliziotti sotto accusa per “falsa testimonianza” per i silenzi attorno alle fallimentari indagini sulla strage. E i figli di Paolo Borsellino hanno citato, in questo nuovo processo, come responsabili civili per il risarcimento dei danni anche la presidenza del Consiglio ed il ministero dell’Interno. Il processo precedente, ad altri tre funzionari di polizia, è finito con nulla di fatto, e con un ispettore – ieri testimone, oggi nuovo imputato – che nella sua audizione ha risposto in aula per centoventuno volte «non ricordo» alle domande dei pm. Al centro di tutto ci sono i misteri del falso pentito Vincenzo Scarantino, un “pupo” che ha ingannato tutti, vestito per l’occasione dall’allora capo della Squadra Mobile Arnaldo La Barbera.
Siamo di fronte a molte cose, quando parliamo di via D’Amelio. E, anno dopo anno, si rafforza una consapevolezza: di tutto questo insieme di “cose”, la mafia che uccide è forse la cosa più banale. In questo mosaico, composto da tante tessere e da molti pezzi mancanti, c’è di tutto. Ci sono innanzitutto trame di potere, e poi c’è un sistema istituzionale di intrecci tra interessi diversi, che hanno un doppio comune minimo denominatore: quel magistrato come nemico, e l’impunità come effetto.
Se poi si allarga la vista, si sfugge alla dittatura del “qui e ora”, si guarda tutto con uno sguardo più largo, non solo palermitano, non solo siciliano, viene fuori un’altra consapevolezza: e cioè che questa traccia, che tiene insieme entità diverse tra loro unite da un comune interesse, è la storia diffusa del nostro Paese.
Da Piazza Fontana a oggi l’Italia è questo: un Paese di colpe senza colpevoli. Come per Pio La Torre, Pier Santi Mattarella, la strage di Bologna e Piazza della Loggia. È questa la vera tragedia, ci siamo abituati per dosi progressive di veleno e di menzogna a convivere con mezze verità, a rinunciare a sapere, alla giustizia.
Questo ci deve ricordare, ogni anno, la morte di Paolo Borsellino. E allora non dobbiamo raccontare e ricordare la morte, l’eccidio, la strage, la violenza, lo sgomento, l’orrore. Dobbiamo raccontare quello che è accaduto subito dopo, che è ben più grave di quello che è accaduto prima e durante. Perché ci hanno rubato la verità. Si, siamo di fronte ad una grande e terribile menzogna, ad un furto di verità.
Non è stato un furto con destrezza, tutt’altro. Abbiamo lasciato che avvenisse. Le cose sono accadute, ci sono passate davanti, senza che ci fosse da parte nostra la capacità di comprendere quello che stava accadendo. E quello che stava accadendo era un formidabile e patetico depistaggio che da oltre trenta anni ci lascia orfani di un pezzo di verità fondamentale, che non riguarda solo la mafia, tutt’altro. Perché il depistaggio non è stato un atto di mafia, ma un atto di Stato.
Alcune istituzioni di questa Repubblica lo hanno organizzato, con uno scopo ben preciso: bisognava far credere che dietro la mafia ci fosse solo la mafia. Il risultato è stato di sette persone condannate all’ergastolo ingiustamente, di una falsa verità che è durata ben diciassette anni, di un pupo, Vincenzo Scarantino, un falso pentito che per curriculum, caratteristiche, indole era per tutti inattendibile come mente ed esecutore del più clamoroso attentato terroristico mafioso della storia recente, tranne per chi gli ha creduto. E ancora oggi su questa vicenda non si riesce a recuperare il filo delle responsabilità.
Ma bisogna tenere a mente che i protagonisti di questa vicenda sono giudici, questori, funzionari dei servizi segreti, segmenti dello Stato. Non sono mafiosi. Mentre noi facevamo il funerale a Paolo Borsellino, con una folla inferocita che gridava «fuori la mafia dallo Stato», stava avvenendo l’esatto contrario: pezzi di Stato erano dentro la mafia, la stavano indirizzando, guidando, ricreando, per organizzare il funerale della verità, per impedirci di arrivare al movente.
Noi siamo stati anche complici. Noi, che ci basta piangere i morti una volta l’anno, agitare le bandiere, portare le corone di fiori, il corredo di memorie e lamentazioni ed atti di dolore.
Noi, che ci sembra troppo complicato da seguire e meno appassionante da raccontare tutto il resto.
Noi, con la nostra capacità di abituarci a tutto, di non farci più domande, di consolarci con le poche mezze verità che si sono state concesse.
Noi che viviamo tra il compiacimento per i grandi momenti liturgici emotivi, ed il desiderio di non drammatizzare troppo il resto.
Noi che ci abituiamo ad accettare ogni cosa che accade, calando lo sguardo, facendo all’occorrenza un passo indietro. È questo il vero spirito di adattamento della nazione, la vera resilienza, il demonio che ci portiamo dentro.
Giacomo Di Girolamo