Il presidente del consiglio è Paolo Gentiloni. L’amministrazione Trump, in America, passa da uno scandalo all’altro. L’Italia perde lo spareggio con la Svezia ed è fuori dai Mondiali in Russia. È il 2017. E bisogna tornare con la mente a quell’anno per godersi appieno quanto accaduto, il 28 ottobre del 2024, a Palermo. Sono le sei e dieci. E c’è un treno che arriva in una stazione.
La stazione è in centro, si chiama Libertà. Quello che arriva è il primo treno della nuova tappa dell’eterno cantiere che sta realizzando il cosiddetto anello ferroviario di Palermo. La fermata come quelle che si vedono nelle città moderne. La D’Agostino costruzioni generali Spa ha fatto le cose come si deve: l’ascensore, la scala mobile, le pensiline di pregio, e i marmi con decorazioni liberty (in omaggio allo stile delle storiche dimore della zona, abbattute durante il sacco cementizio di Palermo degli anni Sessanta). Cose che da queste parti non si sono mai viste.
Costo dell’opera: undici milioni di euro. Su un totale, per questo primo lotto, di centosessantuno milioni di euro. Un giorno di festa per il presidente della Regione Renato Schifani, per Rfi (Rete ferroviaria italiana), per il Comune di Palermo. Insomma, per tutti. Guastato però da un piccolo particolare: l’inaugurazione dell’opera, nel primo, fiducioso cronoprogramma, era prevista per il 2017. Appena sette anni fa. Poi, tra guai giudiziari dell’impresa precedente e altri rinvii, si è arrivati al 2024, anno in cui, tra l’altro, il cantiere ha festeggiato – si fa per dire – i suoi primi dieci anni.
Dieci anni, e, sentirli tutti. La «cura del ferro» di Palermo non è infatti senza dolore. A questa inaugurazione è arrivata una città stanca, ormai preda di transenne e cantieri, dove, come insegna Johnny Stecchino, il problema più serio è il traffico, e solo il traffico. Si avverte la fatica anche in questa nuova fermata, piena di cittadini che si chiedono se ne è valsa la pena di vivere in questa trincea urbana così a lungo. Tanto che Libertà è sì il nome del quartiere, ma è anche il messaggio di liberazione – appunto – che è passato tra i residenti sfiancati. La fatica, si vede: è nei volti di Renato Schifani, del sindaco di Palermo Roberto Lagalla, del prefetto, del presidente di Rfi, Dario Lo Bosco. «Palermo e la Sicilia crescono, migliora la mobilità a favore dei cittadini», commenta Schifani.
Dieci anni e undici milioni di euro. E si va avanti. Piano. Lo stesso presidente Lo Bosco, per calmare gli entusiasmi, annuncia già lo slittamento da giugno a settembre 2025 delle prossime stazioni: «Mancano i materiali», dice. Perché nelle opere pubbliche di Sicilia succede di tutto. Le ditte che falliscono, le inchieste della magistratura, l’Anticorruzione in campo. E poi, il materiale che manca, l’inflazione che fa sballare il prezziario, le congiunture internazionali, il caldo afoso che rende impossibile lavorare d’estate. Infine, la siccità. Perché, ci spiegano, la mancanza d’acqua blocca pure i cantieri.
Macchinari come le enormi talpe meccaniche, che servono per scavare le gallerie, hanno infatti bisogno di un grande quantitativo d’acqua. Per realizzare, ad esempio, le gallerie della linea ad alta velocità Palermo-Catania, finanziata dal Pnrr, si stanno utilizzando queste famose «talpe» Tbm costruite in Cina. Giganteschi macchinari le cui frese vanno raffreddate in fase di scavo con sei litri d’acqua al secondo.
All’epoca del progetto, fra il 2021 e il 2022, Siciliacque, la società che gestisce il servizio idrico in Sicilia, si era impegnata a fornire l’acqua necessaria ai vari cantieri. Ma quest’anno la società ha dovuto comunicare l’impossibilità di rispettare quegli impegni: con la poca risorsa disponibile bisogna dare priorità a città e campagne. È una guerra tra assetati, che vede solo perdenti. Perché la «talpa», già montata, non si può tenere ferma. Costerebbe un patrimonio. E poi, i lavori finanziati dal Pnrr, devono essere terminati entro il 2026.
Insomma, grande opera che fai, problema che trovi. La «talpa» è poi attesa a Palermo per i lavori dell’anello. Secondo le previsioni di Rfi, l’ultima fermata del passante ferroviario, tra viale Lazio e viale delle Alpi, sarà completata nella seconda metà del 2027. A quel punto, da quel giorno di febbraio del 2008, in cui veniva inaugurato il cantiere per raddoppiare il binario tra l’aeroporto e Roccella, saranno trascorsi vent’anni.
Il nodo principale dell’opera più lenta della Sicilia è lungi dall’essere risolto ed chiamato «il tappo di vicolo Bernava». È un’intera zona, un quartierino poco distante dal tribunale, a essere stata letteralmente sventrata nel 2012, perché lì doveva passare una galleria di sessanta metri, la metà di un campo da calcio. Però c’è stato un «imprevisto idrogeologico», come dicono i tecnici. In altre parole, è stata intercettata una falda idrica che in teoria non ci sarebbe dovuta essere (il che, nella città che ha acqua fino al prossimo Natale, secondo le stime della Protezione Civile, sa di beffa…). Da allora sono passati dodici anni: perizie, varianti, altre perizie, ricorsi, appelli. In mezzo ci sono le vite delle decine di famiglie che vivono lì, e che dal 2012 hanno delle case sgomberate o inagibili fino a quando i lavori non saranno completati. Racconta il signor Filippo: «Io sono stato cacciato da casa mia tre anni fa. Aspetto ancora di sapere da Rfi cosa devo fare, ma non risponde nessuno». Alla domanda, in effetti, Rfi risponde laconicamente: «I lavori vanno avanti come da programma».
Il signor Alberto abita vicino al cantiere. Lui non se ne è andato. Si affaccia dal balcone di casa e lo vede. Sente anche il rumore dell’acqua della falda che nessuno riesce a sistemare. E conta le crepe che ha nelle pareti. Sul muro c’è anche una data: 9 luglio 2016. È il giorno in cui «si è sentito un enorme rumore, un crack terribile», racconta, quello in cui durante lo scavo è stata scoperta la falda. Ed è spuntata la prima crepa.
Altri palazzi sono stati evacuati da tempo, con un’incertezza snervante per le famiglie che, cacciate di casa dieci anni fa, sono state lasciate lasciate con un indennizzo di trecentocinquanta euro al mese, ma senza mai sapere quando potranno tornare a casa: «È inconcepibile avere un cantiere da dodici anni, senza che nessuno ti dica nulla».
Poco più avanti, un’altra fermata: quella di Brancaccio. La «fermata fantasma», la chiamano. Sulla carta è tra quelle completate, ma ancora non è stata aperta al traffico, anche se dalla Regione rassicurano che «aprirà a breve». Un miliardo e duecentottanta milioni è il costo del nodo di Palermo, l’anello da solo costa trecentoventi milioni e la fermata Libertà, come dicevamo è costata undici milioni di euro. In tutto, in Sicilia, Rfi sta investendo 17,6 miliardi di euro, per quella che Lo Bosco chiama «una rivoluzione copernicana».
Fuori da Palermo, intanto, il tempo sembra non passare. Nell’ultimo report inviato dai pendolari del treno della provincia di Trapani, c’è l’elenco di disservizi e disagi, tra linee chiuse per lavori, ritardi che superano l’ora e viaggi di una lunghezza esasperante. Vale per tutti la tratta Castelvetrano – Trapani. Quarantasette chilometri di percorso. In auto ci vogliono tre quarti d’ora. Il treno impiega invece la bellezza di due ore e ventuno minuti. Nonostante la linea sia stata appena riaperta dopo interventi di manutenzione. A questo si aggiungono le sbarre dei passaggi a livello che non si chiudono e gli allagamenti dei binari quando piove.
Tornando a Palermo, la nuova tappa sarà pronta nel 2028 (o nel 2035?). Poi l’infrastruttura verrà aperta al pubblico nel 2029. Sarà una rete metropolitana che collegherà tutta la città, dal centro storico al porto, alle periferie, fino all’aeroporto. Se tutto va bene saranno venti anni esatti dall’apertura del primissimo cantiere, nel 2008. All’epoca c’erano Prodi al governo, Berlusconi come leader dell’opposizione e la vittoria di Obama annunciava grandi cose per l’America e per il mondo intero. Che nostalgia.