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13/03/2016 06:45:00

Referendum, il Si non ferma le nuove trivellazioni nel Mediterraneo, ecco perché

 L'eventuale vittoria del "Si" al referendum sulle trivellazioni nel Mediterraneo non fermerà ulteriori nuove ricerche, ma si limiterà solo a vietare il rinnovo dei permessi di ricerca già esistenti. Non solo, gli impianti che eventualmente chiuderanno, lo faranno solo tra  almeno cinque anni. E' una delle tante cose che non si sanno su questo referendum, dove la grancassa del Si spesso si lascia andare più a slogan che a chiare spiegazioni su cosa si andrà davvero a votare. Cerchiamo di spiegare bene, allora. Sapendo, che una cosa è importante: il referendum non modifica la possibilità di compiere nuove trivellazioni oltre le 12 miglia e nemmeno la possibilità di cercare e sfruttare nuovi giacimenti sulla terraferma: e compiere nuove trivellazioni entro le 12 miglia è già vietato dalla legge. Una vittoria dei sì al referendum impedirà l’ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti una volta scadute le concessioni.

Per la prima volta nella storia della Repubblica, il prossimo 17 aprile gli elettori italiani saranno chiamati a votare a un referendum richiesto dalle regioni, invece che – come di solito avviene – tramite una raccolta di firme. Si tratta del cosiddetto referendum “No-Triv”: una consultazione per decidere se vietare il rinnovo delle concessioni estrattive di gas e petrolio per i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa italiana.L’esito del referendum sarà valido solo se andranno a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto al voto.


Nel referendum si chiede agli italiani se vogliono abrogare la parte di una legge che permette a chi ha ottenuto concessioni per estrarre gas o petrolio da piattaforme offshore entro 12 miglia dalla costa di rinnovare la concessione fino all’esaurimento del giacimento. Il quesito del referendum, letteralmente, recita:

Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, “Norme in materia ambientale”, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilita’ 2016)”, limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”?


Il comma 17 del decreto legislativo 152 stabilisce che sono vietate le «attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi» entro le 12 miglia marine delle acque nazionali italiane. La legge stabilisce che gli impianti che esistono entro questa fascia possono continuare la loro attività fino alla data di scadenza della concessione, che su richiesta può essere prorogata fino all’esaurimento del giacimento. Si parla quindi di permettere o no che proseguano le estrazioni sugli impianti che esistono già.
Gran parte delle 66 concessioni estrattive marine che ci sono oggi in Italia si trovano oltre le 12 miglia marine, che non sono coinvolte dal referendum. Il referendum riguarda soltanto 21 concessioni che invece si trovano entro questo limite: una in Veneto, due in Emilia-Romagna, uno nelle Marche, tre in Puglia, cinque in Calabria, due in Basilicata e sette in Sicilia. Le leggi prevedono che le concessioni abbiano una durata iniziale di trent’anni, prorogabile una prima volta per altri dieci, una seconda volta per cinque e una terza volta per altri cinque; al termine della concessione, le aziende possono chiedere di prorogare la concessione fino all’esaurimento del giacimento.
Se al referendum dovessero vincere il sì, gli impianti delle 21 concessioni di cui si parla dovranno chiudere tra circa cinque-dieci anni. 
Il referendum non modifica la possibilità di compiere nuove trivellazioni oltre le 12 miglia e nemmeno la possibilità di cercare e sfruttare nuovi giacimenti sulla terraferma: e compiere nuove trivellazioni entro le 12 miglia è già vietato dalla legge. Una vittoria dei sì al referendum impedirà l’ulteriore sfruttamento degli impianti già esistenti una volta scadute le concessioni. 

Alcuni aderenti ai comitati per il Sì hanno  parlato dei danni al turismo che arrecano le piattaforme. Fa notare a proposito il quotidiano Il Post: 

È importante sottolineare, però, che il referendum non impedirà nuove trivellazioni (che sono già vietate) né la costruzione di nuove piattaforme, ma solo lo sfruttamento di quelle già esistenti. Inoltre, il legame tra piattaforme e danni al turismo non è stato dimostrato chiaramente. La regione con il più alto numero di piattaforme, l’Emilia-Romagna, è anche una di quelle con il settore turistico più in salute. La Basilicata, la regione del sud più sfruttata per la produzione energetica, è stata una di quelle che negli ultimi anni hanno visto crescere di più il settore turistico.

Contro il referendum è stato fondato il comitato “Ottimisti e razionali“, presieduto da Gianfranco Borghini, ex deputato del Partito Comunista e poi del PdS. Il comitato sostiene che continuare l’estrazione di gas e petrolio offshore è un modo sicuro di limitare l’inquinamento: l’Italia estrae sul suo territorio circa il 10 per cento del gas e del petrolio che utilizza, e questa produzione ha evitato il transito per i porti italiani di centinaia di petroliere negli ultimi anni.
Una vittoria del sì avrebbe poi delle conseguenze sull’occupazione, visto che migliaia di persone lavorano nel settore e la fine delle concessioni significherebbe la fine dei loro posti di lavoro.
L’aspetto “politico”, infine, è una delle principali ragioni per cui il referendum è stato criticato. Il referendum, secondo gli “Ottimisti e razionali”, è lo strumento sbagliato per chiedere al governo maggiori investimenti nelle energie rinnovabili. Il referendum, dal loro punto di vista, somiglia più a un tentativo di alcune regioni – che hanno reso possibile la consultazione – di fare pressioni sul governo in una fase in cui una serie di leggi recentemente approvate e la riforma costituzionale in discussione stanno togliendo loro numerose autonomie e competenze, anche in materia energetica.

LA CGIL PER IL NO.  "In un mondo attraversato dall'ombra della guerra e con il rischio di un coinvolgimento fortissimo dell'Italia, sarebbe un errore strategico, fatale per il nostro paese vietare l'estrazione di idrocarburi". A poco più di un mese dal referendum indetto da comitati locali e ambientalisti che cercano di porre un freno all'attività della ricerca di idrocarburi in Italia, il fronte dei "trivellatori", dopo lo stop della Corte costituzionale al ricorso delle regioni, trova un nuovo alleato. Con un intervento pubblicato nelle pagine dei commenti del quotidiano "Unità", il segretario nazionale dei chimici della Cgil, Emilio Miceli, prende nettamente posizione contro il referendum. E lo fa con una serie di argomentazioni di carattere politico-economico, dietro alle quali è comprensibile leggere tutte le preoccupazioni del sindacalista per la possibile perdita di posti di lavoro.

Miceli lo sostiene senza girarci troppo intorno. Partendo dal presupposto che nell'Adriatico le estrazioni si faranno lo stesso anche se verranno impedite in Italia (in Croazia, Montenegro e Grecia sta già avvenendo), il segretario della Filctem sostiene che ci saranno "imprese che chiuderanno i battenti" con "emigrazione verso altri lidi di frotte di ingegneri e di complesse infrastrutture tecnologiche e logistiche che rischiamo di perdere, insieme a migliaia di posti di lavoro dell'indotto, nelle quali primeggiamo perché è un lavoro che sappiamo fare, una volta tanto tra i primi nel mondo".

Ma non c'è solo l'aspetto occupazionale. C'è anche quello politico a sostegno della posizione contro il referendum. Miceli, nel suo intervento, sostiene che siamo ancora lontani "dal superamento dell'energia da fonte fossile". Detto in altri termini, di gas e petrolio c'è ancora bisogno e siccome si può estrarlo in Italia perché ricorrere alle importazioni che sarebbero più costose? "Noi speriamo che gli impegni presi a Parigi vengano rispettati, perché il mondo è malato e si stente l'urgenza di una inversione di rotta che ha bisogno di nuove tecnologie per avverarsi. Ma possiamo permetterci un disarmo unilaterale?"

Così, Miceli arriva a sostenere, di fatto, alcune decisioni del governo Renzi su grandi opere di interesse nazionale, con le quali ha affidato al potere centrale più competenze rispetto al passato: "E' giusto affidare temi complessi come quello dei titoli concessori utili alle estrazioni di petrolio e di gas a uno strumento come il referendum? E' legittimo - conclude il suo ragionamento il sindacalista della Cgil - diffondere il dubbio che l'Italia sia un paese nel quale, oggi per la burocrazia e domani per il costo dell'estrazione, non convenga investire perché è un Paese a legislazione emotiva e quindi è bene guardare fuori dal perimetro nazionale?"