Riceviamo e pubblichiamo un interessante scritto del prof. Antonino Contiliano. Si tratta di un estratto della relazione che verrà presentata domani al workshop su "Il femminile e l'immaginario". L'immagine di copertina è un'opera di Marco Rallo, s'intitola "Kaos".
L’identità gender, in ogni immaginario sociale e individuale, ha ragione d’essere solo nei modelli (l’ordine simbolico proprio ad ogni contesto storico-temporale quanto atemporale) delle soggettivazioni. Processi che, come i vari prototipi di macchine (o altro) prodotti dell’industria nei/dai contesti storici e contingenti – innescati dall’industria materiale e/o immateriale –, non sfuggono alla modellistica della situazione in corso d’opera della produzione e riproduzione (sempre rivoluzionaria, K. Marx). Sono i modelli cioè che nel loro divenire amalgamano la biologia naturale, le norme sociali e l’educazione, la cultura e il potere politico di classe vs le “minoranze” (specie il bio-potere della bio-politica della realtà a noi contemporanea). Il maschile e il femminile, così, al di fuori della relazione dei termini e delle connessioni con le extra-contiguità dei casi, non hanno sostanzialità alcuna. Cosa che, crediamo, può essere seguita scorrendo l’ordine schematico appresso fotogrammato:
Alcune società dei nativi americani, per esempio, distinguono tre generi sociali: uomo, donna e nadle. Il genere nadle indica sì un individuo biologicamente maschio, ma il suo ruolo sociale non è né il maschile né il femminile (donna) standard, bensì un ruolo terzo socialmente accettato quanto importante. I «bambini navaho, cheyenne, lakota e di altri gruppi possono così scegliere tra tre identità sociali»1. Possono, desiderandolo, adottare abbigliamento e ruoli lavorativi femminili, nonché avere rapporti sessuali con altri uomini, mentre, al tempo stesso, sono impareggiabili cacciatori e guerrieri.
Nel modello europeo e americano dominante, invece, i soggetti che non seguono la loro anatomia sessuale, generalmente, sono disprezzati, mal tollerati e anche discriminati. Questo perché manca loro un self sociale codificato cui fare riferimento; motivo per cui, spesso, sono giudicati dei devianti o degli anormali. Nel migliore dei casi, vengono categorizzati nella tipologia dei bizzarri e degli anticonformisti. Esemplare, in questo senso, è il caso dei « punk-a-bestia e bande»2. Questi rifiutano l’identità dei modelli tradizionali e hanno pratiche sociali di simbiosi con gli animali, di abbigliamento e manipolazioni corporee particolari – pantaloni stracciati, scarponi militari consunti, anelli, orecchini, capelli colorati e tagliati irregolarmente – e vivono in spazi marginali e fra comportamenti promiscui.
Nelle società arcaiche, per esempio, le ricerche antropologiche hanno individuato gruppi che non hanno conoscenza del corpo naturale e del corpo individuale. Qui la loro identità di genere è un sotto-insieme del corpo sociale; un aggregato costruito dai segni, dai tatuaggi, dalle iscrizioni e dai segni di iniziazione della comunità. «Si tratta di un corpo privo di organi individuati ed è esso stesso attraversato da anime, da spiriti che appartengono all’insieme del gruppo»3.
Nella nostra società, o del capitalismo neoliberista della fabbrica-impresa, si assiste invece alla pratica di un potere politico che, modularmente, interviene mediante la nuova governamentalità della stilizzazione. Una tecnica di governo che opera attraverso le interfacce che controllano l’individualizzazione dei processi di soggettivazione. Avere un corpo, come scrive Felix Guattari, «non è affatto scontato»4.
Il corpo naturale e quello individuale non esiste in sé. Esso invece è fabbricato mediante l’uso di interfacce costruite ad hoc dalle imprese dell’ordine dominante. Il corpo così ci viene restituito come capace di svilupparsi dentro uno spazio sociale, produttivo e domestico.
Per inciso, profetico in tal senso, si può considerare l’esempio della trasformazione libertina della giovane aristocratica di cui ci racconta Donatien Alphonse François de Sade nella sua opera “La philosofie dans le boudoir”. È il libro che racconta la storia della giovane Eugénie che, disinibita e immersa nell’immaginario elaborato dalla filosofia illuminista, viene iniziata alle variabili orgiastiche dell’erotismo. L’azione fabbrile si svolge tra le condotte della voluttuosa madame Saint-Ange, il cinico Dolmacé, il falloso giardiniere Augustin e il Cavaliere de Mirvel.
Il potere non agisce dunque direttamente sull’individuo ma mediante le interfacce come superfici di contatto costruite dai sistemi educativi, dai sondaggi, dalle inchieste e dagli odierni auditel che – prelevando gusti, potenzialità e opinioni – producono le medie statistiche (l’italiano medio, l’elettore, il consumatore…). Qui i campioni statistici funzionano da base, mentre l’individualizzazione viene identificata attraverso i profili fatti assemblando (oggi) le tracce elettroniche registrate e immagazzinate nelle memorie esterne, le memorie dei “Big Data”.
Le interfacce sono così i mediatori dei modelli di comportamento veicolati dalla pubblicità e appaiono strutturati come o ibridi (compositi attivi), ovvero dei dispositivi che trasmettono comandi. Il comando «di incitazione e di sollecitazione della soggettività (assoggettamento sociale) e strumenti di indicizzazione, di valutazione e di misura della soggettività stessa (asservimento macchinico) »5.
La produzione di soggettività, allora, non si può non dire che non passi attraverso un lavoro che – come anticipato da Spinoza e Nietzsche – opera direttamente sul corpo come una forma e immanente. Sì che l’iniziazione individualizzante nella nostra società semio-cognitiva neocapitalistica e di mercato consiste «nell’interiorizzazione del corpo naturale, del corpo individuale, già strutturato secondo i dualismi del maschile e del femminile, dell’anima e del corpo, dell'individuale e del collettivo»6.
La ricercatrice e studiosa Beatriz Preciado scrive che, relativamente all’identità di genere (maschile/femminile) il funzionamento dell’assoggettamento sociale e dell’asservimento macchinico può essere descritto attraverso (anche) il capitalismo farma-pornografìco. Nella fabbricazione del genere, l’intervento sul corpo avviene all’incrocio tra i due dispositivi che, nei termini della governamentalità, sono quelli che si occupano dell’individuo e del dividuale (l’individuale non è più l’indivisibile “sinolo” greco). Il capitalismo farma-pornografìco è quello, per esempio, che per agire la femminilizzazione corre attraverso il dispositivo delle pillole (come “il Prozac, le viagra, le Tepazepam ou la Ritalina”). Un dispositivo «leggero, portabile, individualizzato e affabile che permette di modificare il comportamento, scadenzare l’azione, regolare l’attività sessuale (…). La pillola è un laboratorio statale miniaturizzato installato nel corpo di ogni consumatrice »7.
La farmacologia e la pornografia, nelle società neoliberiste (società dopate), si insinuano nelle relazioni sociali in profondità con semiotiche non riconducibili al solo linguaggio significante. Utilizzano anche quelle macchinico-a-significanti e del pre-simbolico (gesti, movimenti, danza…) mentre, dall’altro lato, in termini complementari e massicciamente, sfruttano anche le semiotiche delle immagini televisive. In particolare spiccano quelle della creatività pubblicitaria; motivo per cui i “creativi della pubblicità” potrebbero essere considerati e valutati come «i veri magnaccia della società contemporanea. Il reato di adescamento dovrebbe essere applicato non alle prostitute ma alle imprese e alle agenzie pubblicitarie, indiscriminatamente»8. Non si vende una qualsiasi cosa (yogurt, automobile, profumo…) senza eccitare il consumatore attraverso l’esibizione dell’immagine arrapante di una donna.
Il nostro corpo, come dimostra la femminizzazione dei pesci “cavedani” – pesci maschi che inglobano nella vescica gli estrogeni femminili presenti nelle acque dove vivono – è un corpo marcato dai segni-potenza, dai segni a-significanti delle industrie farmaceutiche come un vero prodotto della ricerca e di laboratorio. Un intervento che non trova più il soggetto (maschio o femmina) dato naturaliter. Esso appare piuttosto un organismo lavorato, un supporto modificato fin dalle sue componenti sub-individuali, biologiche, chimiche, atomiche e componendo un nuovo corpo. Un nuovo soggetto che risponde soprattutto alle esigenze della produzione e della riproduzione del capitale, il sistema sistemico che opera per assoggettamento sociale e asservimento macchinico.
Il nostro corpo è così il prodotto dell'asservimento macchinico e non risponde più neanche ai canoni dell’archeologia freudiana. Si definisce come un soggetto che non è più esclusivamente riflessivo, cosciente e prodotto dall’intersoggettività. La sua soggettività, infatti, come scrive B. Preciado, è tossico-pornografìca («soggetto Prozac, soggetto cannabis, soggetto alcool, soggetto Viagra, soggetto cortisone...»9). Le figure nuove umane sono così letteralmente dipendenti dalle grandi industrie farmaceutiche e dalle politiche delle istituzioni collettive del Welfare. Strutture, sovrastrutture e infrastrutture che regolano i massicci investimenti scientifici e tecnologici secondo il ciclo della mancanza infinita. Il deficit d’essere che viene attivato mediante la circolarità continua dell’“eccitazione-frustrazione-eccitazione” infinita, ovvero del circuito ripetitivo che subordina e plasma macchinicamente le condotte dei cittadini-consumatori. Un rapporto di asservimento macchinico che, predisposto dalla pornografìa o dalla droga, non è più intersoggettivo, interindividuale. Esso, infatti, funziona tramite dispositivi nei quali «figurano certamente degli umani ma anche tecnologie e semiotiche a-signifìcanti (gli algoritmi quando si tratta di macchine informatiche, le equazioni scientifiche quando si tratta di economia, le immagini quando si tratta di pubblicità, di televisione) che agiscono su una soggettività divisa, scissa»10. Si tratta dei segni-operativi delle formule della chimica, delle neuroscienze, della biologia molecolare e della genetica che agiscono direttamente sul corpo. Rappresentazione e coscienza sono baipassate!
Nulla società della comunicazione e del controllo l’assoggettamento sociale (per sua specificità) interviene pertanto sul corpo attraverso tecniche che ne organizzano disciplinarmente il tempo e lo spazio attraverso leggi, saperi specializzati, norme, semiotiche linguistiche e visuali, sistemi educativi e tecniche di “cura” di sé e del self sociale etc. (Per inciso, poi, di questi sistemi e dispositivi, peraltro storicamente leggibili, già ne hanno dato lucida e ampia documentazione gli studi “archeologici” di Michel Foucault).
L’asservimento macchinico, da parte sua, invece organizza «una normalizzazione che non passa per la norma, ma per azione di programmi o diagrammi chimici, genetici, neuronali, di molecole sintetiche su molecole reali, di ormoni sintetici su ormoni reali. Si tratta, letteralmente, di un potere «molecolare», endocrino e hi-tech che va ben al di là delle tecniche rappresentative, discorsive, molari applicate all’individuo-soggetto»11.
Il controllo sociale, dall’altra, si esercita «passando dal corpo, ma segnandolo dall’interno (“ingoiando pillole, si ingoia potere”, dice Beatriz Preciado). Attraverso la massiccia somministrazione – grazie alla pillola contraccettiva – di ormoni (estrogeni) al corpo delle donne, si produce e si riproduce una sessualità femminile come un desiderio puro: null’altro che il godimento fine a se stesso, assoluto; ossia il consumo erotico come circolazione di una merce creata ad hoc dalle politiche economiche estetizzanti. Ma quegli stessi estrogeni poi, espulsi tramite l’urina delle donne e sparsi nelle acque (non filtrate dai dispositivi di epurazione) o nei luoghi dove vivono i pesci maschi “cavedani”, sono la causa che «provocano una femminizzazione dei pesci (i pesci maschi producono uova nei loro testicoli)»12.
La femminilità – scrive Antonello Sciacchitano (per lui “L’Edipo non esiste ma appare”) – non ha un’essenza. Come dimostra il “velo” alle donne nella civiltà dell’Islam, la sua forma «non è una, perché non esiste l’essenza femminile; Lacan diceva che la donna è “non tutta”; avrebbe detto meglio che è “non una”, cioè è una classe propria, nel senso che non rientra in alcuna classe; è inclassificabile, cioè non ha essenza. Ma come si lavora attorno a ciò che non c’è e, se c’è, non è determinabile concettualmente?»13.
Occorre tuttavia, culturalmente, salvare l’inconscio come struttura “epistemologica”.
E per salvarlo – continua Antonello Sciacchitano (psicoanalista e filosofo) – occorre
sganciarlo dalla terapia individuale per ricollocarlo nella sua sede naturale che è la psicologia collettiva. La sistemazione dottrinaria freudiana è finora un’anatra zoppa. Prevede metà percorso della soggettività: dall’individuo alla massa attraverso l’integrazione identificatoria dell’individuo all’Uno. Manca la seconda metà: dalla massa all’individuo […] Purtroppo, l’analisi freudiana del collettivo non va oltre questa metafora, e rimane in un certo senso en souffrance […] La premessa è (corsivo nostro) una collettivizzante senza collettivizzazione, come la chiamava Spinoza, una particolare riforma dell’intelletto (emendatici intellectus): il passaggio dalla mentalità ontologica alla mentalità epistemica. Per creare l’ontologia del noi bisogna abbandonare l’ontologia dell’Io, che è, per passare a un’epistemologia dell’inconscio, dove ogni singolo opera su un sapere collettivo senza poterlo dominare completamente, quindi senza essere collettivo in modo completo. […] un collettivo “senza qualità” nel senso musiliano del termine, non collettivizzante, cioè senza proprietà caratteristica, che lo definisca in modo concettuale […] Nel governo il collettivo assoggetta l’individuale al proprio potere; nell’educazione l’individuale è portato a conformarsi al collettivo; nella psicoanalisi entrambe le operazioni sono riprese e criticate alla luce di un esperimento terapeutico […] non medico ma etico, che “normalizzi”, magari inventando nuove norme, nuove ingerenze del Super-Io nell’Io. Anche questo fa parte della Kulturarbeit. […] la fondazione non è mai collettivizzante. Resta un residuo di “non tutto”, come lo chiamava Lacan a proposito del “femminile”, un’Ombra, come la chiamava Jung, che genera rivoluzioni e sbriciola con l’andar del tempo l'universo (maschile) in cui siamo stati “a forza” collettivizzati, magari ricreando - ironia della sorte - altri universi maschili chiusi, perché non si sa fare altro14.
Il compito – se la comprensione non vuole essere “soltanto cecità” (L. Wittgenstein) di fronte all’incomprensione – può essere allora quello di costruire un ambiente di vita diverso. Magari cooperativo e meno collettivizzante. Ma pur rimane necessario non ignorare che la società della comunicazione e del controllo ha costruito un immaginario individuale “individualizzante” a strati super-frammentati e tuttavia interagenti ma, certamente, non solamente per le vie di una epistemologia della rappresentazione e della consapevolezza del vecchio soggetto idealistico. Si tratta dell’immaginario “macchinico” degli individui ridotti a consumatori e prosumer (creatori e soli responsabili di sé come produttori e consumatori). Sono i soggetti (uomini e donne), qualunque sia l’origine e l’ambiente, la cui identità passa attraverso la fabbrica dei corpi sotto l’urgenza produttiva dell’offerta dell’economia-finanza del capitalismo informatizzato. Un’offerta che la stessa industria dell’immateriale postfordista, anarchica quanto ancora fortemente antagonista di classe, impacchetta nelle forme del software (e nelle modalità di cui si è già fatto cenno avanti) facendola incorporare baipassando i momenti della riflessione e della critica. Non dimentica neanche di manipolare, strumentalmente, lo spazio-tempo di vita e di esistenza di ciascuno! Senza sosta, infatti, è un’ininterrotta ricapitalizzazione del sociale rivoluzionando le stesse forme simboliche capitalistiche ormai in disuso (ormai inutili) e imprigionando lo stesso futuro come tempo astratto e assolutamente indifferente ai bisogni reali delle persone reali. Per questa macchina da guerra di classe il mondo reale coincide con il proprio, il virtuale e speculativo globale. Nel suo procedere non c’è alcuna differenza tra economia reale e virtuale, così come è indifferente alle differenze tra maschile e al femminile o il migrante e l’indigeno etc.!
Di fronte a questa macchina da guerra anarco-neoliberista, se c’è un modo, oltre a quelli inventati e messi in pratica dai movimenti politici nati dalla crisi delle difese delle istituzioni rappresentative, è quello (anche) di fare scendere in campo le singolarità sociali della ‘macchina da guerra’ (deleuziana-guattariana) o dell’ozio-inutilità dell’arte e della poesia azionate dal divenire-noi, il “divenire-identità-di-fuga”. La fuga dal controllo. La fuga che crea rotture nei linguaggi dell’individualizzazione comandata del capitale e nello stesso spazio-tempo organizzato e articolato, ma facendone deragliare le leggi totalizzanti dell’utilità capitalistica codificata e socializzata. Si tratta, si vuol dire, delle deviazioni sovversive proprie al linguaggio dell’arte e della poesia. Il linguaggio dell’are e della poesia, infatti, è una follia socializzante di controtendenza, in quanto fa delirare la codificazione della comunicazione dominante, perché ne sconvolge gli enunciati performativi orientati allo scopo e al controllo delle pratiche e delle condotte. Altresì si può dire che i soggetti di questo delirio, in quanto eventi ‘anomali’, sono una molteplicità che si sottrae agli apparati di cattura, quelli cioè che mirano a bloccare le potenzialità dei divenire eterogenei. Non tutta la materia, infatti, è formata o omogenea (c’è dell’amorfo!) così come nell’organico c’è del non-organico, nell’umano del non-umano e nello spazio-tempo dei ritmi non causali-lineari. Sono i ritmi non quantificabili secondo una misura determinata ma secondo un più o un meno molto indeterminato (per non dire grandezze evanescenti); cioè il discreto continuo degli istanti-intervalli che hanno a che fare con le variazioni di intensità eterogenee piuttosto che con la metrica e le misure stabilizzanti, o multiple di una unità data. Il tempo degli istanti, un tempo ‘patchwork’. Il tempo non omogeneo.
Come dire, forse, che il tempo come istanti è il punto di vista più idoneo perché il tempo della poesia (e dei verbi/azione che lo coniugano) sia il ‘tempus’ delle con-fusioni e delle intensità tonali a variazione continua anziché il vecchio kronos delle discontinuità numeriche.
Il tempo cioè delle variazioni continue piuttosto che il vecchio dio che divora i propri figli. Sì che l’istante, per la sua doppia o paradossale natura di intervallo temporale e non temporale – come direbbe G. Bachelard – è l’ora degli insiemi degli stessi istanti eterogenei e simultanei e decisi come punti localizzabili qualitativamente. Una costellazione di simultaneità di istanti diversi che riunisce il disperso e frammentato dello stesso essere delle cose in divenire, così come avviene negli universi delle logiche del sogno e nel mentre li si scaglia contro il bersaglio negativo, di turno.
In ogni vera poesia, si possono allora trovare gli elementi di un tempo fermato, d’un tempo che non segue la misura, d’un tempo che noi chiameremo verticale per distinguerlo dal tempo comune che fugge orizzontalmente con l’acqua del fiume, con il vento che passa.… Mentre il tempo della prosodia è orizzontale, il tempo della poesia è verticale […] Accettando le conseguenze dell’istante poetico, la prosodia permette di raggiungere la prosa, il pensiero discorsivo, gli amori reali, la vita sociale, la vita corrente, la vita sdrucciolevole, lineare, continua. Ma tutte le regole prosodiche non sono che mezzi, vecchi mezzi. Lo scopo, è la verticalità, la profondità o l’altezza; è l’istante stabilito in cui le simultaneità, ordinandosi, provano che l’istante poetico ha una prospettiva metafisica15 .
Una vera e propria mimesis praxeos con-testuale e rizomatica che si muove tra le trasversalità semantiche e, oggi, anche fra quelle a-semantiche dell’ordine simbolico odierno; quello cioè delle relazioni matematizzate, algebrizzate e controllabili quanto prevedibili come un computo statistico algoritmizzato. Un ordine del tempo metrico o del ritmo non qualitativo mentre – scrivono Deleuze/Guattari – è noto che il ritmo non è misura o cadenza, ma «istanti critici […] passaggio da un ambiente in un altro. Un passaggio che non opera (corsivo nostro) in uno spazio-tempo omogeneo, ma con blocchi eterogenei»16 o di durate e molteplicità. La durata è infatti una molteplicità di istanti critici o di intervalli in tensione, una distanza cioè che intervalla un movimento da un punto A a un punto B e nel cui mezzo permane una molteplicità diveniente di altri istanti aggrovigliati e ‘continuum’ di intensità.
Come per Gastone Bachelard, anche per gli altri due francesi, gli istanti dell’azione del linguaggio della poesia sono quello di ritmi/intervalli critici. Un andare cioè che è non quello delle cose ritmate, per cui la musica come la stessa scrittura poetica possono essere delle ‘macchine da guerra’ o potenze di metamorfosi che agiscono contro le forme delle identificazioni statuali; quelle che individualizzano e catturano i concatenamenti dei divenire. I concatenamenti del linguaggio poetico dimostrano che «la macchina da guerra non ha di per se stessa la guerra come oggetto, ma assume necessariamente questo oggetto quando si fa appropriare dall’apparato di Stato»17 ma, al contempo, attiva linee di fuga e rotture fra gli ordini del sistema dominante e dei suoi modelli identificatori.
Il ritmo/intervalli si svolge così – come scrivono gli stessi Deleuze/Guattari – ‘fra’ inter-ambienti o nel come se (dell’a-logia) delle tensioni e delle intensità come quelli fra due corsi d’acqua o fra due ore etc. È il ritmo del volar via e della sua differenza come ripetizione antagonista-conflittuale, o difforme pluri-biforcazione. Una ‘catastrofe’ che interrompe la riproduzione periodica e controllabile del tempo capitalistico e del suo biopotere predatorio. È il ritmo di una costellazione di simultaneità di istanti eterogenei che, nel linguaggio-azione della poesia e dell’arte, si concatenano modificando i modi percepire e di sentire delle singolarità individuali e collettive, rendendoli, così, inafferrabili entro le stesse forme codificate dell’immateriale sistema-mondo neoliberistico. Una disidentificazione attivabile sia con gli scioperi degli “Io” vedenti (parafrasando Rimbaud) sia con l’ozio delle singolarità collettivizzante (senza la collettivizzazione omogeneizzante però dell’eguaglianza degli individualismi neoliberistici) una temporalità di liberazione, quale il tempo altrimenti dell’arte e della poesia o dell’ozio anticapitalistica. Un’arma di soggettivazione che ci sottrae al tempo-denaro del modello capitalistico e capace di trasformare il denaro stesso in tempo disponibile e ricchezza sociale, riconvertendo i sensori estetico-percettivi come azione di cambiamento delle condotte produttive e di prospettiva. L’ozio dell’artista o del poeta, scrive Marcel Duchamp, è un modo di cambiare proiezioni su di sé, gli altri e il mondo. Come artista – scrive – ho separato la vita dalle opere per «servirmi dell’arte come per stabilire un modus vivendi, una specie di modo per capire la vita […]. La cosa importante è vivere e avere un comportamento»18.
Se ciò è possibile per uno è altrettanto possibile per una collettività che si vuole liberare dal tempo-denaro e dell’opera come merce (il lavoratore è separabile dal lavoro, così come la sua forza-lavoro creativa può essere sottratta all’incorporazione in una merce sottoposta alla legge del valore e dell’autovalorizzazione capitalistica). I processi di desoggettivazione e risoggettivazione o di disidentificazione sono sempre in costruzione, un divenire-possibile.
1 Vincenzo Matera, Mariangela Giusti, Emanuela Arielli e Angela Biscaldi, Identità e relazioni, in Il Manuale di Scienze umane, marietti scuola (De Agostini), Novara, 2011.
2 Ivi
3 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, in Il governo dell’uomo indebitato, DeriveApprodi, Roma, 2013, p. 162.
4 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., p. 161.
5 Maurizio Lazzarato, Il dividuale: la deterritorializzazione dell’individuo, op. cit., p. 161.
6 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., p. 162.
7Cfr. Nota n. 25 (a proposito delle ricerche di Beatriz Preciado), in Maurizio Lazzarato, op. cit., p. 163.
8 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., p. 166.
9 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., p. 164.
10 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., pp. 166-67.
11 Maurizio Lazzarato, La fabbricazione del corpo, op. cit., p. 163.
12 Ibidem.
13 Antonello Sciacchitano, Verso una psicoanalisi del soggetto collettivo, in “Aut Aut”, n. 371, pp. 171 e ssgg.
14 Ivi.
15 Gastone Bachelard, Istante poetico e istante metafisico, in L’intuizione dell’istante /La psicanalisi del fuoco, Dedalo, Roma, 1991, pp.115-116.
16 G. Deleuze e F. Guattari, Mille piani-Capitalismo e schizofrenia (Volume II), Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma, 1987, p. 455.
17 Ivi, p. 748.