Ad un certo punto, e verso la fine di questo film, mentre il suo amico di bisboccia Artie sta a guardare divertito, Joe Ferrone (l’istrionico Tony Musante, qui in una delle sue migliori performance, dopo quel po’ di fortuna toccatagli in alcune serie tv), tenta di strappare dalle braccia di Ed McMahon la giovanissima figlia che più che dormirgli in braccia, ha paura e si nasconde alla lercia storia di cui è incolpevole testimone. “ Voglio solo guardarla! Voglio solo parlarle!”, continua a ripetere l’arrogante, e sappiamo già bene che la sua mente perversa – in realtà – ha già ideato qualche sottile umiliazione pure per l’infante. È il nodo narrativo che sblocca il finale del film, l’ultimo, insopportabile oltraggio che spinge finalmente qualcuno a reagire e ad affrontare i due teppistelli.
Un elemento di natura affettiva, di riguardo protettivo verso i piccoli della specie, che è l’innesco dell’esplosione finale; quando, a ben vedere, tale risultato non lo avevano ottenuto né l’affronto all’homeless ubriaco, né il muso duro con l’ex alcolizzato in cerca di definitiva redenzione, né l’incredibile pantomima ai danni dell’omosessuale, né il confronto generazionale con l’anziano criticone, né gli assalti sessuali alla ragazza e alla donna matura insoddisfatta, né la messa in berlina dell’uomo di colore – pateticamente illusosi di rispondere con la violenza alla violenza dei bianchi –, né – infine – i tentativi di attaccare discorso e briga con i due militari in licenza.
Praticamente, tutta la condizione sociale e culturale degli Stati Uniti di metà anni ’60, passati a setaccio e messi a fermentare dentro al vagone di una metropolitana notturna, non valgono la scintilla della presa di onore della comunità contro due ‘mostri’ (nel senso di ‘monstrum’, proprio, cioè che vengono a portare l’epifania del creato, ciò che siamo nella realtà) che aizzano, sbeffeggiano, offendono, deridono. Pugnalano, magari.
Serve questo stratagemma della sceneggiatura per far impennare il climax (a dire il vero, già rovente), e forse – tra le righe, ma mica tanto – questo passaggio paternalistico nasconde, ad-ombra, una lettura finemente politica sulla situazione degli States di allora. Una piccola, lieve e comunque acidissima analisi che il regista, Larry Peerce (figlio del famoso tenore della Metropolitan Opera, Jan), porta a compimento in punta di stiletto; cos’è un paese che non riesce a scrollarsi di dosso la peste interna della sopraffazione, della negazione dell’altro e della libera convivenza, e che dice di poter esportare – con le buone o con le cattive, sia chiaro – concetti idilliaci di ‘demos cratos’ e di ‘pace, amore & liberta’?
Forse è un miraggio, una fata morgana? O forse è una truffa bella e buona?
Noi, spettatori domenicali di questa piccina rubrica di Tp24.it, sappiamo solo che questo interessante thriller, girato con un nervoso e datato bianco e nero, spezzato volontariamente in due dal montaggio (i primi cinquanta minuti di quasi barbosa costruzione dei vari personaggi, poi i secondi cinquanta di magistrale costruzione teatrale e di sopraffina tensione), ci va via via ricordando altri notevoli esperimenti cinematografici di ‘interazione coagente’ (direbbe l’epistemologa Susan Oyama).
Ne voglio citare due, diversissimi per arte cinematica e per approccio di meccanismo: il primo – e lo chiameremo ‘esempio perfetto di dominio biologico’ – è il dimenticato “La pattuglia sperduta” di John Ford, del 1934, mentre il secondo – indicato come ‘esempio perfetto di dominio culturale’ – è il più che conosciuto “La parola ai giurati” di Sidney Lumet, del 1957.
Nel primo c’è un esasperato tentativo di sopravvivenza del corpo, nel secondo un affascinante dominio della mente. Qui, Peerce fonde e rende potabile la tesi di una miscela tra aggressività e pensiero, delimitazione dello spazio e apertura della morale, con un sacrificio finale del singolo che non riscatta ma quanto meno impone una presa di coscienza al gruppo.
Una tesi flebile, certo, e portata sul grande schermo da un regista che non lo era allora e né diverrà in seguito famoso o quotato, ma pur sempre un granello di sabbia nell’ingranaggio dello ‘status quo’ americano. Un’America che, proprio in quel fatidico 1967, portava più di 500 mila giovani in armi nelle foreste e nei villaggi del Vietnam e del Laos. Molti – gettati di peso in quel vagone invisibile di fango, di alberi, di afa e di cielo terso –, non si sarebbero comportati molto meglio di Joe e di Artie.
Buona visione, alla prossima domenica ed al prossimo film!
Marco Bagarella
Per vedere il film, cliccate su questo link:
https://www.youtube.com/watch?v=y2-ImgJ5YJo&t=198s