Questo film è una preghiera. Innanzitutto, che voi lo vediate tutto, non lasciandovi travolgere dall’enormità dell’impresa. Un’opera di più di due ore, di un regista – quell’Andrej Tarkovskij, dimenticato oramai dai più – che condannato a morte da un male incurabile ‘scrive’ a suo figlio un testamento per immagini; un link – quello che vi segnalo più sotto – in una risoluzione video non certo ottimale (ma ho trovato, in alternativa, solo un file in italiano deturpato dalle distorsioni ottiche) e sottotitolato, poi, anche se doveva succedere che “Stalker” facesse i conti con i sottotitoli. Una bella rogna domenicale, penserà subito qualcuno di voi!
Mi perdonerete, ma non ho resistito. Dopo il siparietto sul cinema italiano fatto con niente, dopo il ritorno al mainstream con l’opera ‘urlata’ di Peerce di domenica scorsa, era troppo forte il bisogno di raggiungere altri lidi, di toccare terre solitarie ed abbandonate al terrore. Il terrore vero, quello umanissimo della poesia che cerca di ascoltare il battito del mondo invisibile. E vi riesce, forse, portando alla superficie dei nostri occhi, i cigli delle grandi catene montane degli interrogativi supremi, indicandoci le foreste – ammantate quasi sempre di nebbia critica – lungo le quali scendono torrenti di vertigini e di dubbi senza alcuna risposta.
Tarkovskij è stato un leone in forma d’artista. Ha lottato contro la nomenclatura sovietica, si è imposto ed ha imposto al panorama cinematografico mondiale il suo rigore stilistico, fecondano sguardi d’altrove nel suo sguardo sempre creativo ed ascetico al tempo stesso. Mentre il realismo socialista imbacuccava molto cinema russo, spingendolo fuori dai proprio confini, Tarkovskij – esule sia quando posava il piede sulla sua amata Russia, e sia quando si costringeva a vivere in giro per il mondo –, aveva spinto fuori dal ‘sistema comunista’ se stesso e, con una forza d’animo assoluta, indirizzava verso quel fantasma in forma di dittatura, la sua terribile arma fatta di ombre di luce e di lettura storica totalmente metafisica. Che riletta così, sembra proprio un paradosso! “Non può nascere niente di serio senza la base della tradizione. Non si può abbandonare la propria pelle russa, non si fugge dai luoghi che ti tengono attaccato al tuo paese, da quello che è stato fatto nel passato dal tuo cinema e nella tua arte, e dunque nella tua terra”.
Dal promettente esordio ‘krusceviano’ de “L’infanzia di Ivan”, passando per quell’autentico capolavoro (per quanto mi riguarda, il film che porterei con me sulla fatidica isola deserta) che è “Andrej Rublev”, passando dalla ‘fantascienza psichica’ di “Solaris” e “Stalker” (ora sapete di chi è nipotina questa rubrica), per giungere alle ultime opere, è tutto un florilegio di fatica di scrittura e sforzo d’immagine che non hanno pari nell’intera storia del cinema.
Qui, Tarkovskij ha 54 anni, pochi mesi lo separano dalla morte ed il congegno narrativo che costruisce è puro e tenebroso come il fumo denso che sale, dopo che il protagonista (un Erland Josephson, mai più tanto teatrale e tanto ‘plastico’, in egual modo) ha dato fuoco alla villa – e all’intera sua vita – per salvare l’umanità dal demone nucleare. Da spettatori si resta, attoniti e stanchi della visione, distesi sotto l’albero secco del simbolo, piantato sulle rive del mare in attesa che rifiorisca. Miracolosamente.
A complemento di tutto ciò, faccio seguire il link (nulla c’è in lingua italiana, purtroppo!), del bellissimo documentario – ‘racconto d’arte’ sarebbe molto più congruo – che il giovane regista tedesco Sebastian Mez ha girato, nel 2013 nelle terre umide della zona di Ozyorsk, tra gli Urali. Una delle zone più radioattive (dal primo ‘incidente nucleare’ del 1957, si è passati ad altre scelte scellerate nei decenni successivi), e parimenti meno conosciute dall’opinione pubblica internazionale. Ciò che fa da tema di fondo della ‘katastrophé’ del film di Tarkovskij, qui, nel film di Mez è realtà avvenuta e con cui l’intera natura è costretta a sopravvivere. Mez fissa il suo stativo tra putride erbe ionizzate, in arcangelici boschi erosi dal cesio, innanzi a volti fissi destinati al patibolo del cobalto. Quello che in Tarkovskij era felice e lenta costruzione di scena, in Mez diventa immobilità improvvisamente rotta da movimenti di inquadrature che inquadrano soggetti o dei soggetti che si lasciano inquadrare. Ma passa l’attimo, e tutto torna nel rigore di ripresa di un promettente autore (tarkovskijano fino al midollo, mi sia concesso), che rincorre – sovvertendo spesso il senso dell’attesa dello spettatore – un formalismo autentico mentre discute con noi della ‘bestia che non si vede’. Tutto è degno di affascinare la nostra inquietudine. Composizione di materia decomposta.
Un secondo albero secco, piantato in memoria delle generazioni future.
Buona visione, alla prossima domenica ed al prossimo film!
Marco Bagarella
Per vedere il film di Tarkovskij, cliccate su questo link. Se non partono in automatico i sottotitoli in italiano, andate sull’opzione “cc” e sceglieteli:
https://www.youtube.com/watch?v=w-vNOfr2Aec&t=392s
Per il lavoro di Sebastian Mez, questo è il link. Il documentario è in lingua originale:
https://www.youtube.com/watch?v=KcnDop2QiKc&t=246s