di Marco Marino
Mentre entro a Villa Zito (Palermo) per visitare la mostra di Nicola Pucci, in Cina due fidanzatini escono a fare una romantica gita in barca sul Lago Poyang.
L’antologica di Pucci, che è stata organizzata dall’associazione Settimana delle Culture e curata da Paola Nicita, raccoglie opere dal 1999 al 2019. E parte dalla fine, da un lavoro del 2019, la prima anomalia cui si va incontro: una statua, l’unica all’interno di una mostra di soli quadri. Un tuffatore, che poggia sul fossile di un passeggino vintage, è in procinto di saltare sopra o sotto il manubrio. Sgusciare via o lanciarsi nel vuoto.
Quando ti immergi nella sua stanza, ti sembra di trovarti in una piscina oscura, svuotata dell’acqua; le uniche timide luci sono riservate all’atleta. Intanto sul Lago Poyang, a bordo di una stretta e lunga barca, il nostro Romeo orientale ha appena finito di cantare una serenata alla sua bella, le chiede di chiudere gli occhi, e si avvicina all’estremità opposta dell’imbarcazione per prendere qualcosa.
All’interno dell’opera di Pucci il motivo dell’atleta, l’impeto della sua velocità, sono centrali. Si potrebbe dire, in effetti, che il dinamismo dell’atleta per Pucci è quasi uno strumento di indagine. Non sul moto, ma sulla stasi. Mi spiego meglio. Quando Pucci inserisce nei suoi quadri - secondo una sublime poetica dell’interferenza - la figura in movimento di uno sportivo, mette in risalto la sconcertante staticità che gli sta intorno.
Come in «Salto stazione» (2016): all’interno della sala d’attesa di una stazione vuota, due tuffatori si rincorrono per saltare dalle scale. O magari è la stessa persona in due diversi istanti della sua corsa. A colpire di più non sono gli uomini in costume presi dalla frenesia del salto, ma l’inamovibilità e l’indifferenza che li circonda. Perfettamente esemplificata da un ragazzo che di fianco alle scale parla al telefono e non si accorge di nulla.
L’universo narrativo di Pucci si alimenta di questi due tempi opposti, la corsa e la sosta, la passione e il disinteresse. E la loro convivenza dà vita a dei meravigliosi cortocircuiti.
I due amanti stanno sui capi opposti dell’imbarcazione. Lui tira fuori da un cestino una scatolina con dentro un anello di fidanzamento, ma non ha il tempo di girarsi che contemporaneamente una mucca, caduta dal cielo, precipita addosso alla sua amata.
Anche questo mio tragico racconto cinese vuole essere un cortocircuito, o un’interferenza, all’interno dell’articolo che state leggendo. È una storia vera raccontata nel film «Un cuento chino», a cui ho pensato per tutto il tempo della mia visita.
"Cuento chino" è un’espressione ispanica che suggerisce qualcosa di strano, addirittura assurdo. Eppure, in questo caso reale. E ci pensavo a proposito dell’universo creativo di Pucci perché i suoi quadri mi trasmettono proprio questo ambiguo sentimento del reale.
È irreale pensare che un fantino in sella al suo cavallo entri in un tram? È assurdo immaginarsi che un quarterback bracchi un torero durante la Corrida? Saremmo tutti portati a dire sì, è impensabile e insensato.
L’Opera di Pucci, però, ci ricorda che questo nostro mondo a più velocità è aberrante. Per sua natura, nella sua costituzione risiede un’incantevole insensatezza, che restituisce a tutti noi, visitatori e passanti, il desiderio di vivere appieno la stranezza del nostro presente. E - perché no? - di provare anche noi il salto nell’abisso.
[È possibile visitare la mostra fino al 29 marzo. Per maggiori informazioni su orari e biglietti potete cliccare qui]