Valeria Fonte, trapanese d’origine, è un’attivista e divulgatrice femminista. Laureata in Lettere e ora studente magistrale di Italianistica a Bologna, è seguitissima sui social: ospite fissa in numerose rassegne di eventi femministi, lavora spesso nelle scuole e nelle università.
«Femminismo intersezionale, Diritti, Poesia, Attivismo, Letteratura, Linguistica e Filologia sono le mie armi di distruzione del binomio “patriarcale capitalismo”», scrive.
Durante quest’intervista, Valeria ci ha spiegato gli elementi fondamentali dell’attivismo femminista, ci ha parlato di “corpo politico”, dei limiti delle piattaforme social e del punto in cui ci troviamo con la lotta per la parità in Italia, in particolar modo in Sicilia.
Come e perché sei diventata un’attivista?
In realtà non ho scelto di diventare un’attivista, è qualcosa che è successo in maniera spontanea in seguito ad un evento in particolare: qualche anno fa ho subito condivisione non consensuale di materiale sessuale. Il mio volto all’improvviso era ovunque: quando ti viene strappata in questo modo l’identità stessa, senti il bisogno di riappropriartene. Ho deciso quindi di dare una narrazione diversa del fatto, di spiegare quanto la gogna mediatica sia un problema. Ho preso parola, egoisticamente: non c’entrava niente l’altruismo, mi distacco da qualsiasi tipo di agiografia. Per me è stato un vero e proprio bisogno di riscatto. Arrivi ad occuparti di divulgazione, di femminismo, di attivismo, perché tu per prima vuoi vivere una vita migliore. Nel personale, nel quotidiano. Ho iniziato arrancando, ed è stata un’esperienza formativa. Lo è ancora oggi, ogni giorno.
Attivismo social: funziona?
L’attivismo social per me non esiste. O meglio, esiste, ma deve sottostare a certe condizioni e risulta limitante. Fare attivismo online significa fare i conti con una piattaforma che ha delle regole proprie, regole che mutilano continuamente l’attività di divulgazione. Contenuti censurati, oscurati, shadowban: i corpi femminili poi sono un vero e propri tabù, ed io credo che non esista attivismo che non parta dai corpi. Il corpo è parte integrante del processo di lotta femminista. Sui social cerchiamo sempre un compromesso, abbiamo una cittadinanza precaria. Facciamo un attivismo calmierato perché potremmo mettere in pericolo la nostra esistenza online, il nostro lavoro, il nostro seguito. Domandiamoci dunque: ha senso che una piattaforma privata possa gestire in maniera così profonda e radicale tutto il futuro dell’attivismo online? Su una piattaforma online rischi di sparire da un momento all’altro. A me è successo due volte: ti viene tolta la voce ed il pubblico a cui parlare. E la divulgazione necessita di pubblico, io ho l’obbligo e la necessità di arrivare a più persone possibili e di occupare tutti gli spazi che riesco ad occupare per poter dare una narrazione differente. Ci viene recriminato l’esibizionismo, la ricerca di visibilità, sulle piattaforme social, ma in realtà stanno recriminando la nostra presa di spazio. Il fatto che i nostri corpi, fisici e virtuali, occupino uno spazio che non è a loro dovuto.
Come il corpo diventa politico?
Il corpo diventa politico in moltissimi modi, io ad esempio lo utilizzo per generare indignazione. Voglio creare in chi guarda un senso di disagio, di fastidio. Pensiamo che per agire con i corpi in maniera credibile, intelligente, positiva, bisogna sempre avere un messaggio da lanciare. Vorrei invece richiamare l’idea che il corpo possa agire semplicemente, come manifesto politico, ma senza un fine morale o etico. Usarlo in maniera stupida, sporca, diversa. Mi viene in mente il lavoro della sex worker Rosario Gallardo: ha girato un video illuminante, un porno in cui lei fa delle cose che quasi non hanno senso, come rotolarsi nella polvere. È un video “brutto”, in cui il corpo non vuol essere reso “appetibile”, anzi, fa cose atipiche, “diverse”. Il punto è: riappropriarci del nostro corpo ed usarlo come meglio crediamo. Soprattutto, prenderci il rischio di questa libertà.
Parliamo della tua terra d’origine: secondo te, a che punto siamo in Sicilia con la lotta per la parità?
Ti rispondo così: il primo pride di Marsala è stato organizzato solo quest’estate ed eravamo circa venti persone. Basta fare il confronto con Torino, Milano, Roma, Bologna: non solo i numeri sono totalmente diversi, ma c’è proprio una consapevolezza diversa. In Sicilia c’è ancora tantissima diffidenza verso le lotte femministe, le questioni LGBTQ, fondamentalmente perché questo è un Paese di vecchi. Può sembrare un po’ forte come pensiero, ma è così. Mi spiego: i giovani tendono ad andar via dall’isola, e a causa di tutta la questione meridionale qui mancano proprio gli strumenti per rendere le persone consapevoli. Sono andata via anch’io, ma poi ci torno sempre. La Sicilia è casa, è un Paese meraviglioso, ha tantissime potenzialità ma non le si sfruttano adeguatamente. L’onore e il nome della famiglia vengono troppo spesso ancora al primo posto. Pensa cosa ho passato io da siciliana che viveva in un paesino in provincia di Trapani quando è stato condiviso, in maniera non consensuale, materiale sessuale che mi ritraeva. Prova ad immaginare la delusione del paese nei confronti della mia famiglia, della loro figlia “disgraziata”. Quando poi ho spiegato che le cose che facevo nel video eran cose che a me piacevano, che ero in una situazione in cui mi sentivo totalmente a mio agio e che l’unico vero problema era stata la condivisione senza consenso, apriti cielo! Ormai avevo disonorato la mia famiglia. Qui si considerano i figli prolungamento dei genitori, uno specchio della loro educazione e di quella delle generazioni precedenti. Se tu fallisci, falliscono loro. E questo è un pensiero che va assolutamente cambiato.
Femminismo e uomini: perché è ancora così spesso un tabù? Perché dovrebbero avvicinarsi al tema e esser coinvolti nelle lotte femministe?
Quando si ha un privilegio non ci si rende conto che quel privilegio danneggia o limita qualcun altro. Cosa ci guadagna un uomo ad uscir fuori da una dinamica sociale che è stata costruita intorno a lui? La verità, però, è che il patriarcato non riduce solo l’agency delle donne, lo fa anche con gli uomini.
Come quando gli viene richiesto di reprimere i propri sentimenti e le proprie “inclinazioni femminili”: i maschi devono rispettare una serie di standard di virilità in maniera costante. Se si devia dallo standard, si perdono i punti di riferimento.
Quindi innanzitutto dovrebbero iniziare un percorso di presa di coscienza, rinunciando alla frase “not all men”. È ovvio, scontato che gli uomini non sono tutti uguali, non facciamo di tutta l’erba un fascio. Ma il fatto che non tutti gli uomini discriminino, uccidano, stuprino o siano violenti con le donne, non risolve certo il problema del sessismo. E non è necessario commettere stupri o femminicidi, basta aver fotografato una ragazza in atteggiamenti intimi ed aver inviato quelle foto, senza il consenso di lei, ad un amico. Aver assistito a situazioni maschiliste, misogine, violente, ad un cat calling e non aver aperto bocca. Aver detto alla propria fidanzata di indossare una maglietta, un vestito diverso, per non attirare l’attenzione. Spesso gli uomini pensano che certi atteggiamenti siano innocui, goliardici, di certo non tossici. Ma non è così. E quando se ne rendono conto, inizia la presa di coscienza.
Quindi “yes, all men”. Per il femminismo, includere i maschi nelle lotte per la parità è fondamentale.
Martina Bruno