Per Salvini erano dei "pirati del mare". Invece erano solo dei disgraziati che avevano il terrore di tornare in Libia, luogo di torture.
La Cassazione ha assolto due migranti "ribelli", che si erano opposti al ritorno in Libia, annullando senza alcun rinvio la sentenza d’appello.
Si tratta di Ibrahim Bichara Tuani, 35enne originario del Senegal, e Ibrahim Amid, 27enne del Ghana, per cui l’allora ministro dell’Interno, Matteo Salvini, aveva chiesto senza alcun successo di farli «scendere in manette» dalla nave Diciotti, dopo alcuni giorni di sosta nel porto di Trapani.
I due erano stati accusati di minacce, violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver impedito l’8 luglio 2018 al comandante del rimorchiatore Vos Thalassa (che li aveva soccorsi nel Mediterraneo ndr) di riportarli in Libia.
In primo grado entrambi erano stati assolti dal giudice Piero Grillo del Tribunale di Trapani, «per non avere commesso il fatto», ma la sentenza era stata ribaltata in Appello. Giudizio censurato dalla Cassazione, che nelle motivazioni depositate in questi giorni, hanno evidenziato la mancanza di una «motivazione rafforzata» che giustificasse il capovolgimento della sentenza di primo grado. Secondo gli ermellini la sentenza della Corte d’appello di Palermo «è silente sul perchè, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale di Trapani, le persone migranti non avessero il diritto di opporsi a quella situazione, di far valere i propri diritti fondamentali, di reagire difendendosi rispetto ad un respingimento che esponeva loro al rischio concreto di trattamenti inumani».
Inoltre, per la Cassazione, «ciò che non è stato nè trattato, nè spiegato dalla Corte d’appello di Palermo è perchè le persone, che non avevano colluso alcunchè con gli scafisti e con le organizzazioni criminali e che fino a quel momento non avevano manifestato nessun comportamento oppositivo, non potessero rivendicare i propri diritti fondamentali, ma dovessero restare 'fermì, inerti, e accettare di tornare in Libia con il rischio di subire torture o comportamenti inumani».