Cecile Kyenge, a Marsala per l’inaugurazione della Summer School. E’ stata la prima ministra italiana di origine congolese. Ci racconta la sua esperienza?
Sì, io aggiungo a quello che ha detto, la prima ministra nera. Per me è stata una grande gioia. Quando ho ricevuto la chiamata di Letta, rimasi un po’ sorpresa, perché, è vero mi ero occupata di politica a livello locale e nazionale, ma non mi aspettavo di essere il primo ministro di origine straniera in Italia. Mi ha fatto veramente un enorme piacere. Faccio fatica a capire quello che è successo ancora oggi. Ho detto di sì, sono diventata ministro e per me è stato un grande onore. Letta, ma anche il presidente Napolitano erano avanti con i tempi, avevano capito che il territorio stava cambiando. C’era una trasformazione culturale delle persone ma anche in termini di tratti somatici e di appartenenza e di molte culture nello stesso territorio. Quella non era più l’Italia degli anni ’50 e ’60.
A proposito delle battaglie culturali, alla luce di quello che sta accadendo a Roma, con “l’operazione cleaning”, come si vincono, con quali strumenti?
Intanto, è bruttissima la parola clearing. No so a chi dare la paternità a quella parola ma mi ha fatto rabbrividire perché mi ha fatto pensare non solo ai richiedenti asilo che vengono buttati fuori dalla società, ma a come vengono trattate le povertà, a come vengono trattate le vulnerabilità. Oggi, ho l’impressione che non riusciamo a dare delle risposte con delle politiche sociali, con una politica culturale. Una risposta diversa da quello che è l’intervento emergenziale con le forze di polizia.
E’ solo l’Italia che non riesce a dare questa risposta o è anche l’Europa. Come deve governare l’Europa questi flussi migratori?
Noi purtroppo ci troviamo nel bel mezzo di una crisi economica e di sicurezza. Con i diversi attentati che si sono verificati un po’ dappertutto sul territorio europeo. Una crisi, quella dei rifugiati, altro non è che una crisi umanitaria globale che incrocia un punto che molti non voglio vedere e che siamo costretti a vedere, la crisi demografica. Questa ci porta all’Europa dei popoli che ci impone di elaborare le politiche per vedere chi saranno i futuri cittadini di domani e lo dobbiamo fare oggi, dando così delle risposte alle tre crisi che ho detto prima. Se non avremo questa lungimiranza credo che difficilmente l’Europa potrà arrivare ad un progetto unico di una politica d’integrazione.
Si può parlare di Ius Soli come una pratica burocratica sganciata da quella che è la vera integrazione?
Dobbiamo essere contenti. Quattro anni fa quando ho iniziato con lo Ius Soli e le politiche di accoglienza e integrazione ero considerata una marziana. Oggi posso anche non parlare perché qualcun altro ha messo al centro il dibattito. Vorrei però che si indirizzasse verso la strada giusta. Quando si parla di Ius Soli, non è semplicemente un pezzo di carta, un passaporto, questo vuol dire ridare dignità ad un milione di bambini che nascono oppure crescono in Italia. Vuol dire infondere amore per la patria a questi giovani che sono qui e considerano l’Italia il loro Paese.
Come rispondiamo ad una ragazza magrebina di 26 anni già con cittadinanza Italia che dice: “Si tratta di una scemenza progressista”.
Ognuno ha delle motivazioni per cui magari reagisce così. Io difficilmente commento le dichiarazioni di altri, semplicemente io guardo allo stato di diritto, uscirei da qualunque strumentalizzazione per andare a vedere su che cosa si basa uno Stato: il rispetto della costituzione, il rispetto dei diritti. Noi abbiamo aderito a questo, abbiamo firmato la carta per i diritti globali e la cittadinanza è un diritto e di questo dobbiamo discutere.