Gentile direttore,
questa mattina ho letto con interesse l’intervento di Katia Regina sull’ennesima querelle “maschi-femmine” di cui purtroppo è intriso il dibattito pubblico contemporaneo.
Katia Regina è con tutta evidenza una persona dalle qualità intellettuali indiscutibili ed è proprio questo stridìo fra messaggero e massaggio ad avermi accentuato quel senso di paradossalità che già da giorni mi permea.
Perché paradossale è questa morbosità, generalizzata, nell’indulgere su una narrazione dettata più dalla necessità dei media a monetizzare la loro agenda, piuttosto che concentrarsi su una fotografia della realtà figlia di numeri e dati.
Come premessa metodologica, dò per scontato che i “maschi” a cui si sta facendo riferimento in questi giorni non siano i capiclan delle tribù afgane ma gli italici e colpevolissimi maschi del belpaese.
Ebbene, restringendo il campo di discussione a questo contesto geografico, si scopre (report Openpolis del 01/03/2023, su elaborazione Edjnet ed Eurostat) che tra l’elenco dei paesi UE l’italia si trova al quart’ultimo posto in termini di femminicidio. Migliori di noi gli altri paesi mediterranei “patriarcali”: Grecia, Spagna.
“I paesi del Nord, considerati al primo posto per uguaglianza di genere, hanno livelli di stupro e violenza contro le donne spaventosi.” Questo afferma Tina Marinari, responsabile campagne Amnesty International Italia in quello che viene convenzionalmente chiamato il “paradosso nordico”
Questo quadro statistico ci dice che l’Italia è dunque uno dei paesi europei più sicuri per le donne e se volessi fare facile e sgradevole ironia, potrei dire che invece che richiedere le scuse dagli uomini italiani, le donne del belpaese dovrebbero ringraziare i “maschi” per farle vivere in un paese che le rispetta e le tutela più degli altri paesi europei.
E che ci sia una forma marginalità delle violenze, qui sintetizzate con i dati sui femminicidi, lo certifica lo stesso Ministero dell’interno con il suo monitoraggio settimanale sui reati riconducibili alle violenze di genere.
L’ultimo report disponibile, al 26/11/2023, riporta 107 uccisioni di donne dall’inizio dell’anno, di cui 88 in ambito affettivo e, filtrando ancora, 56 pepetrati da parner o ex partner.
Qualcuno dirà che sono tanti, qualcuno dirà che sono pochi, ma utilizzando la fredda statistica, su una popolazione femminile di 30 milioni di donne, si tratta rispettivamente dello 0,0003% (su 107), lo 0,0002% (su 88) e lo 0,0001% (su 54).
Si tratta di fenomeni sicuramente importanti e da attenzionare (dietro ogni numero c’è una donna con una sua vita, le sue sofferenze, le sue gioie, i suoi progetti e i suoi affetti) ma se osservati sotto una lente statistica non consentono una oggettiva colpevolizzazione totalitaria del restante 99,9997% della popolazione maschile.
Inoltre, si tratta di fenomeni che, su questi presupposti statistici, potrebbero rientrare anche nella normale fisiologia sociale, come sottolineato da Émile Durkheim, importante sociologo vissuto a cavallo tra l’800 e del ‘900 che sancì nei suoi studi come “il reato è normale perché la società che ne fosse esente sarebbe impossibile”.
Quindi, dobbiamo aspettarci l’esistenza di reati (anche quelli, ma non solo, contro le donne) e ovviamente impegnarci per marginalizzare ancora di più il fenomeno. Ma per fare ciò dobbiamo utilizzare strumenti che rispecchino il peso e l’entità del fenomeno.
Un po’ come sta avvenendo con i casi di infanticidio e il suo relativo (inesistente) sottofondo mediatico.
Secondo un rapporto Eures del 2022, in Italia un minore di 12 anni viene ucciso ogni due settimane da uno dei genitori (in prevalenza donne).
Si tratta di cifre statisticamente assimilabili a quelle dei femminicidi ma di cui nessuno si sogna, e giustamente, di sventolare la bandiera dell’emergenza infanticidi. E questo per due motivi: le statistiche non lo consentono e i media non hanno l’interesse a promuovere questo tipo di agenda.
Allora proviamo a spostare il focus sull’atteggiamento patriarcale, sulla rieducazione del “maschio”, sull’estirpare la sua voglia di “dominio” sulle donne.
Ma cosa è il dominio? Il Treccani riporta che trattasi di “piena potestà di diritto o di fatto sopra persone o cose - Situazione di fatto (detta anche controllo) per la quale un soggetto esercita un’influenza sulla formazione della volontà di altro soggetto”
E allora mi domando, la pretesa di “rieducare il maschio” fin dall’infanzia e secondo standard/convinzioni femminili non è essa stessa una pretesa di dominio? E in una narrazione che mira alla parità dei generi (nei fatti già normativamente esistente) non è paradossale la pretesa di un genere di “rieducare” l’altro secondo i propri standard?
Giochiamo sul paradosso e immaginiamo una situazione a parti invertite: la comunità maschile che chieda a gran voce nelle scuole la “rieducazione delle femmine” secondo standard/convinzioni proprie del mondo maschile. Non sarebbe questa una pretesa incivile e vergognosa? Perfino degradante per la popolazione a cui questa pretesa viene rivolta?
Dunque, e qui concludo un argomento che meriterebbe pagine e pagine, piuttosto che parlare di “rieducazione del maschio” sarebbe meglio introdurre a scuola “ore di dialogo”, imparare l’arte del confronto oggi sempre più bombardato da atteggiamenti polarizzanti.
Imparare il rispetto per le altrui opinioni, anche se diverse dalle nostre. Imparare a convivere senza “rieducare” nessuno ma, semplicemente, esponendo il proprio punto di vista ed ascoltando quello altrui.
Questo tipo di educazione, sì, che aiuterebbe a diminuire le violenze di genere e non di genere.
Sì che coadiuverebbe la convivenza fra creature programmate biologicamente diverse che si cercano e si rifiutano in una danza antica quanto la prima cellula mai esistita sulla terra.
E forse, imparando a dialogare serenamente, riusciremmo anche ad accettare tutte le sfaccettature della realtà, senza sentire la necessità di dominarla e/o rieducarla.
Luca Sciacchitano